Da più di due settimane ho un post-it sul computer. Recita perentorio: “Lower Dens + East India Youth”. I rispettivi album, pubblicati entrambi a inizio di questo Aprile, mi stanno effettivamente accompagnando con una certa frequenza. Insieme a loro, un terzo – fondamentale – ascolto. E’ curioso: questi lavori, seppur differenti in quanto a direzione sonora, stile e arrangiamenti, hanno un comune denominatore: un abbeverarsi appassionato alla musica pop anni ’80 – proprio la stessa che sto di recente ascoltando con costante entusiasmo ed orecchio critico.
L’entusiasmo è dato da reminiscenze più o meno sbiadite legate all’infanzia e che mi fanno sentire ogni canzone un po’ mia grazie ad uno sguardo colmo di benevolenza e affetto; l’orecchio critico, invece, è un discorso più musicale riassumibile così: il decennio degli anni ’80 è il degno erede degli anni ’60 in quanto a bontà delle canzoni, cesellatura di strutture armoniche e linee vocali che hanno il potere magico di suonare allo stesso tempo religiose e catchy, spensierate eppure epiche, eleganti e trascinanti.
Il pop di questa decade è figlio di un desiderio di sperimentazione elettronica; dei synth analogici che mantengono un fascino ineluttabile nonostante la manifesta dichiarazione di appartenenza ad un preciso contesto temporale; delle batterie con il riverbero dall’incedere marziale; delle chitarre con il chorus a chiodo capaci di tessere intelaiature magnetiche. Figlio della sperimentazione, ha a sua volta dato la luce ad una miriade di mode, suoni, atmosfere e chimiche che suonano e suoneranno sempre tremendamente attuali ed intelligenti e che si traducono in sopraffine soluzioni stilistiche. Una dichiarazione di amore simile alla mia è rintracciabile nei recenti lavori di Lower Dens, gruppo di Baltimora capitanato dalla vocalist ed eminenza grigia Jana Hunter, e di East India Youth, progetto del giovanissimo dandy inglese William Doyle.
Partiamo dalla creatura musicale dell’affascinante Hunter: i Lower Dens, già memori di album dalle atmosfere ottantone/novantone come Twin-Hand Movement (cremoso, dreamy, languidissimo) e dal kraut-rock sci-fi di Nootropics (geometrico, serpeggiante, nebbioso), firmano Escape from Evil, un lavoro che non solo conferma la coerenza stilistica finora tracciata, ma soprattutto segna una precisa virata pop. La scrittura risulta meno sfilacciata e più compatta e strizza l’occhio alle meglio hit degli ’80. Impossibile non dedicare una menzione speciale a To Die in L.A., canzone pop dalla bellezza assoluta e definitiva e che ha tutte le carte in regola per competere con una Eyes Without a Face, una Take On Me o una Every Breath You Take. E’ un instant-classic che seduce grazie ad un giro azzeccatissimo di synth, un cantato orecchiabile e un ritmo a cavalcata, instancabile, che lascia letteralmente col fiato corto. Degni di nota il ritornello con una chitarra pungente alla Mark Knopfler e la coda avvolgente e ariosa in fade-out. Capolavoro senza se e senza ma.
Il resto dell’album si muove tra coordinate kraute con chitarre bagnatissime alla Fripp in “Heroes” (Your Heart Still Beating, Company); gustose parentesi new-wave (Electric Current, Quo Vadis, Société Anonyme) che paiono uscite da un best-of dei Tears for Fears o di Siouxsie; attimi synth-pop in odore di Kraftwerk (Non Grata) e un rallentamento, davvero speciale, in I Am The Earth. Questa canzone prosegue idealmente il discorso già tracciato nel disco precedente: atmosfere cosmiche, bordone di synth alla Cronenberg, drumming incalzante, climax vocale, solo di chitarra lacrimante. Un punto altissimo, cinematografico, tremendamente erotico – e algido.
Algido quanto la pioggia di synth strabordanti, in odor di Vangelis, che ci accoglie all’inizio dell’album Culture of Volume di East India Youth, un album “son and heir” di una tradizione tutta britannica che negli anni ’80 ha dato vita all’espressione più alta di synth-pop. I fantasmi di Gary Numan, dei Tubeway Army e dei Depeche Mode si aggirano tormentati in End Result, mentre Beaming White è (ascoltare per credere) Rio dei Duran Duran rivista dai Pet Shop Boys. Un pezzo in tutto e per tutto new romantic che fa il paio con la sincopata (dal ritmo quasi reggae) Don’t Look Backwards e che trova la sua chiusura del cerchio in Montage Resolution, un pezzo dark-ambient.
La pasta sonora del nostro giovine talento, già ampiamente apprezzata nel precedente disco Total Strife Forever, emerge in pezzi come Manner of Words e Turn Away, un pezzo dalle tinte fantasy e New Order con un moto ondoso di synth grassoni alla Giorgio Moroder che fanno emergere la classe vocale di Doyle. L’affondo è con un pezzone clamoroso come Carousel, ambient-gospel sontuoso ed elegante come solo le grandi ballad degli anni ‘80 sanno essere.
Perché, appunto, 80s music sounds so 80s now. But in the 80s, it just sounded like music. Una musica dallo stile immortale che non cessa, apparentemente, di mietere vittime e cuori spezzati.