[pullquote]“Let me hear you scream Fuck The Police! Fuck The Police!”[/pullquote]
Così, senza mezzi termini o filtri, è iniziato il live illegale di Skepta a Shoreditch, in un parcheggio. La performance, durata a malapena mezz’ora, è stata annunciata soltanto poche ore prima, ed è il risultato di una promessa tweetata cinque anni fa. Ipotizzava l’arrivo della polizia dopo non più di due canzoni, invece le camionette dei nemici sono rimaste in fondo alla strada. Il concerto, in onore dell’uscita ufficiale del nuovo singolo, è stato dunque aperto e chiuso (“Shutdown!”, appunto) da colui che ha capovolto le accuse di essere un “wasteman” (netturbino, perditempo, e tutto ciò che scoprite comune ai due sostantivi) fino a rappresentare con sguardo e movenze un’intera, impenitente fetta della cultura inglese.
Il 32enne londinese di stirpe nigeriana incarna lo spirito grime nella maniera più autentica possibile, partendo dal suo flow fino ad ogni singola decisione della sua carriera.
Crudezza, genuinità ad ogni costo: il grime lo può fare chiunque, anche chi non è affatto esperto di produzione al pc, a patto che le cicatrici si possano tastare, e si percepiscano pianti e gioie della realtà da cui si proviene.
Suonava con la Playstation, quando sua madre gli urlava addosso, sperando in qualche spicciolo dal piccolo Joseph, che un giorno sarebbe diventato uno degli uomini meglio vestiti d’Inghilterra secondo GQ. Pochi hanno un’autostima prorompente che sia corredata da una così indiscutibile controparte creativa .
Lo racconta in High Street, nel più recente album di Blood Orange, uno dei vari non-britannici ad aver colto, negli ultimi anni, il potenziale estetico ed artistico di un genere tanto diretto quanto screditato tra gli amanti dell’hip-hop oltreoceano.
Crescendo, l’America l’ha amata sempre meno. Quando gli è capitato di starci, ha visto sgretolarsi progressivamente i grandi miti che lo spettacolo aveva dipinto durante la sua infanzia, portandolo ad ignorare i suoi amici del mondo rap USA, perché merita il suo tempo chi viene dalle strade, e le sa raccontare seduto in un angolo sconosciuto.
Dai marciapiedi di NYC vengono i Ratking, gruppo che, a detta di Skepta, fa quasi inconsapevolmente grime. Stima reciproca significa facile, automatica collaborazione. Dunque ecco una strofa di Wiki, componente più carismatico e talentuoso del trio, nella versione US di That’s Not Me. Oltre all’autoproclamato re del grime e al trio newyorkese, saltellano inebriati Visionist, Jammer, J-Cush, tutti in un video di spensierata giovinezza, controllata incoscienza, vita come significante.
Il video originale ha vinto il MOBO Award, ma allora è ricco e famoso, direte. Accettando il premio, Skepta ha svelato il budget del video: meno del prezzo di un paio di Nike. Con lui JME, fratello e cofondatore di Boy Better Know. Le sagome grossolane su sfondi nostalgici rievocano le clip di Just Jam, risalenti all’età d’oro del grime, il 2006 o giù di lì. Alla regia ci sono proprio Tim & Barry, creatori delle grafiche in stile VHS del servizio di streaming (live e dj set grime rilevanti quanto spontanei) e di Lord Of The Mics, programma di battaglie freestyle con tanto di round pugilistici, omaggiato in un breve documentario uscito come prefazione introduttiva a That’s Not Me.
È merito di Skepta, Wiley, Dizzee Rascal, e simili, se ora personalità potenti come Stormzy e Novelist (il primo eletto Grime Act dell’anno ai MOBO, il secondo nominato per lo stesso riconoscimento, ma quattro anni più inesperto) emergono senza timori o cerniere troppo chiuse. Sia i nuovi volti, sia la più vissuta generazione di grimers, remano tutti nella medesima direzione.
Nel mondo ideale di Skepta, il grime è considerato ovunque una particolare, immortale accezione dell’hip-hop (vedi la trap, ma con accento diverso e qualche banconota in meno), perché nonostante l’oceano di distanza, anche loro rappano, con espressioni ancora più serie e onestà ancora più cristallina. L’orazione alla Red Bull Music Academy è ulteriore prova dell’impatto della scena grime sulla modernità inarrestabile che pervade il 2015.
Drake lo ama e si lascia campionare, Kanye lo saluta dal palco (e non c’era solo Skepta, in all-black ad ululare All Day), le collaborazioni transcontinentali mutano da possibili, nebbiose ipotesi a certezze altisonanti e ascendenti (Flatbush Zombies oggi, Yeezy e Drizzy domani?).
#Konnichiwa è il quarto LP dell’MC, ma ora che la rinascita del grime ha introdotto il genere anche ai più distanti profani, la sensazione è quella di un atteso debutto.
Shutdown, It Ain’t Safe (con Young Lord dell’A$AP Mob, a proposito di States) e ovviamente That’s Not Me sono finora gli unici termini in chiaro della tracklist, ma è indubbio che i bangers si sprecheranno.
La selezione di vocaboli e l’inflessione di ogni isolato latrato rendono Skepta più accessibile di molti colleghi, oltre ad evidenziare bianco su nero il suo talento.
La consapevolezza dei propri mezzi e l’infrangibile espressione corrucciata sono britanniche, la lealtà è in cima ai comandamenti per diventare chi si vuole essere.
Il rapper, producer, stilista e quant’altro “apprezza essere Joseph”: da sempre ci riesce con una distinta scioltezza, e se al MoMA della Grande Mela sono in migliaia a gridare a memoria i suoi pezzi, è più che lecito pretendere un morso ed apprezzarsi ancora di più.
Dopotutto, ogni cosa nasce dal dolore.