Anche quest’anno un improvviso slancio giovanile ci ha portati a Roma per uno dei festival di musica elettronica più attesi dai clubber d’Italia, lo Spring Attitude. Noi ci siamo entrati da clubber wannabe e ne siamo usciti con l’amara consapevolezza di non esserlo, cioè di non avere proprio l’attitudine manco wannabe. Tutti tranne Livio che ha l’attitudine per gruppo sanguigno. Lo vedevi dalla mattina alla mattina dopo con quel suo sorriso che boh, ma era tutta roba naturale, bacche di goji dice. Ci è piaciuta questa edizione del festival? E mica ve lo possiamo dire adesso. Vi dovete leggere tutte le recensioni, tutte. (Attenzione Spoiler: Sì.) Ah, le bellissime foto sono di Alessia Stranieri.
DAY 1
ROBERT HENKE
Chi si aspettava un inizio scoppiettante ballereccio forse è rimasto deluso. Chi invece si aspettava di ritrovarsi nel bel mezzo di un nubifragio sonoro nel Gargano con grilli, cicale e noise esotici, è presto accontentato. Siamo al MAXXI, non al Macro, al MAXXI. Le pareti sono bianche, le sedie sono bianche, le ragazze sono bianche, le ragazze sono molte, i ragazzi sono pochi. Robert Henke è un genio, e si vede subito. Ha proprio il fisico da genio, la pelata, la panza, la camicia tre taglie più grande. Inizia ufficialmente lo Spring Attitude 2015. Henke è uno di quei musicisti che si costruisce programmi e macchine per creare suoni fatti in casa, tipo appunto la tempesta nel Gargano. Parte il viaggio. Etereo, buio, luccicante, epico viaggio. Il pubblico è concentrato, assiste alla performance con devozione. Volano ormoni come cavallette prima dell’Apocalisse. Chiudo gli occhi, parte un mega trip come se fossi sotto acidi (ho scritto COME SE FOSSI). Attraverso paesaggi sonori sempre più profondi, dimentico la percezione spazio-temporale. Apro gli occhi e scorgo, lentamente, in lontananza, un oceano di fregne. Sono al MAXXI, non al Macro. È iniziato lo Spring Attitude 2015.
– Fabrizio D’Agosta
Del giovanissimo veneto dal nome nipponico Yakamoto Kotzuga (all’anagrafe Giacomo Mazzucato) si sente parlare un gran bene già da un po’. L’album di debutto “Usually Nowhere” uscito pochi mesi fa ne ha palesato tutte le capacità, seppur l’impressione resti che si possa fare ancor di più. Il live al MAXXI lo pone sicuramente tra le migliori esibizioni di tutto Spring Attitude: chitarra e controller alla mano, Kotzuga cala i suoi assi sfruttando tutta la potenza dell’impianto, ingraziandosi il foltissimo pubblico con trame oscure eppur malinconiche, non avendo paura di alzare i ritmi quando necessario (leggi: daje de cassa). L’uso sapiente della sei corde si conferma il suo quid pluris. Bravo, bravissimo.
– Livio Ghilardi
JOHN TALABOT
John Talabot è come il cicchetto di tequila la mattina dopo una sbronza colossale. Ti fa risalire tutto. Tutto. Inizia a suonare ed è subito rambla, playa, sabbia, fregne sullo skate, shake shake, mani in alto, strusciamenti, colli sudati, che non sembra più un tranquillo giovedì di maggio, ma un incasinato e complicato venerdì di agosto. Ha classe e talento John, e soprattutto un tocco danzerino che ci ricorda i migliori Booka Shade. I suoi ritmi lenti, torridi, tropicali, rilasciano endorfine in tutta la dancefloor. Uno dei set più umidi di tutto il Festival. Torna John, torna più spesso a trovarci che ci aiuti a scopare.
–Fabrizio D’Agosta
DAY 2
REDINHO
Probabilmente la mia personale rivelazione del festival. Un buon debutto e una serie di EP e singoli all’attivo, l’artista inglese inaugura il palco de La Pelanda con un set sbarazzino e frizzante a base di talkbox, voce effettata, bassoni, synth liquidi e reminiscenze hip-hop nemmeno troppo velate. Si ondeggia e si molleggia sulle ginocchia, sorriso stampato in viso. E chi se l’aspettava?
–Livio Ghilardi
SHIGETO
L’ho apprezzato di più alla Spring Attitude Preview dello scorso anno, ma anche a ‘sto giro l’americano di origini asiatiche si conferma artista illuminato e poliedrico sia coi pad sia seduto dietro ai fusti della sua batteria. Atmosfere più rarefatte di quanto fosse lecito aspettarsi, ma in fin dei conti a Shigeto che je voi dì?
–Livio Ghilardi
Ressa, ovunque. Nei corridoi, fuori dai corridoi. Al bagno, al bancone del bar. Populous inizia e io sono in fila, al bancone del bar. Penso che almeno questo live me lo devo godere sotto palco, dopo un andirivieni continuo tra Factory e La Pelanda a sgomitare con, cercare chi, perdere quello e ritrovare quell’altro, ballare tra. Ma il barman non si muove a farmi sta maledetta vodka lemon (che altro non si può bere che fa schifo). In ogni fila al drink che si rispetti, quello che sta avanti prende la consumazione di te che sei dietro e ti lascia libero almeno di buttare un occhio al palco e di sgambettare su qualche pezzo. Populous sta suonando “Dead Sea” e sembra dirti pure lui sse sse hai voja a morì. E invece eccola la vodka con la lemonsoda: posso finalmente andare a ballare. Andrea Mangia mi fa subito dimenticare tutto il sudore e il sangue che ho buttato fino a quel momento e mi fa muovere la testa e i piedi che ringraziandiddio ho ancora (ma siamo solo al secondo giorno). Populous fa ballare tutti. Me, gli amici, la madre e lui, il vincitore assoluto: l’over 50, con maglietta dei Led Zeppelin, che si dimena a pazzi su “Brasilia”.
– Claudia Maddaluno
DJ KHALAB
Il misterioso producer nostrano – anche se basterebbe spizzarsi le foto per capire chi è – riprende le fila del discorso interrotto dall’amico Populous con “Brasilia” e offre ritmi forsennati che fanno shakerare i fianchi di quanti lo hanno preferito (anche parzialmente) a SBTRKT: tra questi lo stesso Populous e Rachele dei Baustelle. I suoi suoni e vocalizzi afro compensano nel nostro cuore l’assenza del neo-papà Clap! Clap! (formalmente sostituito dal compagno d’etichetta Fantastic Mr. Fox il giorno prima dell’inizio del festival).
-Livio Ghilardi
SBTRKT
Di nomi stile codice fiscale ne abbiamo abbastanza, dei dj-set di SBTRKT forse non se ne avrà mai abbastanza. Il mascherato Aaron Jerome parte coi Radiohead e poi spazia in lungo e in largo con gusto, senza paura di osare. Il pubblico risponde calorosamente, anche e soprattutto quando viene messo a dura prova dai ritmi più incalzanti selezionati dall’inglese. A fine serata avvaloriamo nuovamente la nostra tesi: SBTRKT è meglio come dj che come performer live (di delusioni in tal senso se ne contano un po’). In attesa di miglioramenti decisivi dietro synth e controller, ci sentiamo di promuoverlo e consigliarvelo soprattutto nella veste di “selezionatore”.
-Livio Ghilardi
DAY 3
LA BATTERIA (day)
Per certi versi distanti dall’impronta stilistica della line-up, i romani inaugurano il palco della Factory nella fascia pomeridiana di Spring Attitude con la loro proposta strumentale dal gusto cinematografico che sa di vintage ma allo stesso tempo – soprattutto nella parte finale dell’esibizione – strizza l’occhio a soluzioni elettroniche più contemporanee. Una scommessa vinta.
-Livio Ghilardi
GODBLESSCOMPUTERS (day)
Lorenzo Nada presenta al pubblico il nuovo “Plush and Safe” e va di diritto a collocarsi sul mio podio ideale di quest’edizione. Talento, ecletticità, capacità di mantenere alta e costante l’attenzione per tutto l’arco dell’esibizione senza mai arenarsi in soluzioni spericolate o appannate, è lui il mattatore del pomeriggio al MACRO. Peccato per i visual, la cui resa è stata annullata dalla posizione laterale della proiezione e dalle luci esterne.
-Livio Ghilardi
SCRATCH PERVERTS (day)
Leggende inglesi del turntablism, per un’ora buona il duo ci porta con un tuffo al cuore nell’hip-hop degli anni Novanta e dei primi Duemila con hit di 2Pac, Notorious B.I.G., M.O.P. e Dr. Dre, non trascurando soluzioni più commerciali e catchy. Verso la conclusione viene fuori tutta l’esperienza della scuola big beat e un po’ di fomento va a scemare. In ogni caso: irresistibili.
–Livio Ghilardi
PORTICO
Pubblico timidissimo. Intimorito sicuramente dagli interni dello Spazio Novecento che fanno molto Garrone, “La Sonrisa”, il boss delle cerimonie. Sala da ricevimenti grande, vuota (ancora per poco), tende bianche, di raso. Ma i Portico con quest’atmosfera ci stanno benissimo, con quell’elettronica algida e il lato oscuro degli Ottanta.
Rompono il ghiaccio, aprono le danze al seratone dello Spring.
– Claudia Maddaluno
KELELA
Algida, dicevamo. Mh. In pratica appena Miss Kelela ha fatto entrare la coscia su quel palco tutte le associazioni di pensiero ai toni freddi, a Garrone, ai ristoranti del casertano inoltrato sono finite in un groviglio di ormoni che proprio, davvero, contenetevi per piacere.
Lei comunque ha cavalcato il palco con fare sinuoso, un’eleganza che la puoi solo invidiare e quell’elettronica sporcata dall’ R’n’B che fossi stata maschio avrei imprecato di brutto. Però, comunque, contenetevi.
– Claudia Maddaluno
YOUAREHERE
Il live dei Youarehere l’abbiamo capito solo qualche giorno fa. Spiego. Mentre tu ti stai perdendo nello sbattimento costante del corpo tuo col corpo degli altri, si crea puntualmente un vuoto in mezzo alla gente e tutti si distraggono e iniziano a fare foto col cellulare. Questo succede perché quasi a ogni pezzo fa incursione un astronauta catarifrangente, seguito da una telecamera, che si fa una piroetta sotto al palco e poi se ne va. Abbiamo finalmente capito che stavano girando il nuovo video per “Gagarin”. Seguono le bestemmie delle comparse che hanno perso sei litri di sudore sotto la tuta.
– Claudia Maddaluno
Ho visto i Drink To Me così tante volte da poter descrivere un loro live a occhi chiusi. E non è tanto per dire: io i Drink To Me non posso fare a meno di ascoltarli a occhi chiusi anche se c’ho a fianco il più molesto ballerino di sempre. Mi metto lì e vado di trip lunghissimi. Non riesco a dire basta anche se so che sopra c’è Baths e dovrei andare, ma me ne dimentico, non fa niente, ne parlerà qualcun’altro. Siamo in una stanzetta piccolissima, scura, ma BWL accende tutte le luci e illumina sensazioni bellissime.
– Claudia Maddaluno
BATHS
Uno dei nomi più attesi di questa edizione. L’artista (chiamarlo producer è riduttivo) accompagnato dal suo collaboratore Morgan Greenwood, inizia timidamente il suo live, le sue basi elettroniche sono piene di cose chill-wave, hypna, revival synth-pop fino e si arriva in alcuni momenti al dubstep duro, forse più congeniale al pubblico della dancefloor. Tutti l’aspettano e infatti non tarda ad arrivare il tadadada di “Miasma Sky” con tutta la sua efficacia emotiva. Il set continua e prende forma in una cornice di sitar sintetizzati ed evocazioni angeliche. Laggente sembra addirittura ballare. Lui ha dei pantaloncini scandalosi, bisogna esser sinceri, così scandalosi che potrebbero anche distrarti ma non ne vale la pena, perché la performance di Will Wiesenfeld & socio è di livello, forse non del livello altissimo che ci si aspetta da un artista della sua fama, però sicuramente lascia il piacere di un suono molto ricercato che tocca le corde più profonde. Peccato per quei maledetti pantaloncini.
– Fabrizio D’Agosta
OMOSUMO
Gli Omosumo volevo vederli live da tempo. Il disco mi era piaciuto un sacco ed ero davvero curiosa di sentirlo suonare. In effetti, la performance all’Attitude non ha deluso le mie aspettative, anzi. Il progetto di Dimartino mette su un live fresco ma anche cazzuto, che si apre leggero con “Nancy”, vola sull’elettronica mediterranea e chiude picchiando duro (con bacchette sbrilluccicose). Vola tutto.
–Claudia Maddaluno
SIRIUSMODESELEKTOR
Grande era l’attesa per l’anteprima mondiale dei Siriusmodeselektor, il progetto nato (come facilmente si evince) dall’incontro tra Siriusmo e i Modeselektor (che invece con Apparat diventano poi i Moderat, ma questa è un’altra storia). Un’ora e mezzo di esibizione in cui i visual accattivanti ad opera di Pfadfinderei la fanno da padroni – l’ironica frase “You are the best audience that we ever had” è stato forse l’emblema dell’intero festival – e sirene strombazzanti arrivano all’improvviso a spettinarci con la stessa ignoranza un po’ cattiva ma nemmeno troppo con cui quella volta Glik attaccò le gambe di Giaccherini. Dal punto di vista squisitamente musicale i tre sono delle autentiche macchine da guerra con una buona dose di paraculaggine e tanta qualità per nulla sopita. Sembrava che lo Spazio 900 dovesse venir giù da un momento all’altro. Il coatto che ci piace.
-Livio Ghilardi
APPARAT
Suonare dopo i Siriusmodeselektor non è impresa facile, la gente è su di giri, sudata, smascella da 3 giorni ormai. Ma Sasha è un veterano, viene da Berlino proprio come Gianni Siurismo e Franco Modeselektor ma l’Italia è la sua seconda casa, allo Spazio 900 poi lo salutano tutti, dagli inservienti ai guardarobieri, tipo Totti a Trigoria. Poco dopo le 4 e mezzo A.M. inizia il suo set ed è subito un limonare durissimo dalle prime alle ultime file. Lui è di ghiaccio, impassibile, tedesco direi. Il suono invece è morbido, espansivo, pieno. Avverto subito uno schiacciante senso di isolamento tipo quello che hai con alcune droghe sintetiche tagliate male dalla camorra. Forse è il mio 12° dj set di Apparat e devo dire che la sua musica è sempre stata in un costante stato di metamorfosi, in totale controtendenza con la sua espressione scoglionata da “che cazzo ci faccio qui” tipica di quelle anime soul ma magari in un’altra vita. Il set è da copione di alto livello, cala pezzi di deep house e non si regola con la quantità di bassi emozionali e di ritmiche eteree che deve aver depositato alla Siae perché non riesco a sentirle da nessun altro producer degno di questo nome. Sasha, che nel frattempo ha sempre quella cazzo di espressione di cui sopra, che con tutto il bene che gli voglio ma ridi cazzo almeno una volta bello de zio, scende dal palco, ti prende per mano, ti accarezza la mascella ormai stremata e con queste maledette linee di techno raffinata ma che dico raffinatissima, e dopo quasi 2 ore di ottimo set ti accompagna lentamente all’uscita dello Spazio 900 che la luce è già alta in cielo e tu hai ancora gli occhi lucidi per la meravigliosa Nasty Nails che ti ha somministrato col contagocce nelle vene. Come sempre si è dimostrato un cavallo di razza, difficilmente stecca una serata, gli anni passano e lui sta sempre lì. Con quella cazzo di espressione. Ma che ci vuoi fare, viene da Berlino, mica da Maratea.
– Fabrizio D’Agosta
DAY 4
MR RAOUL K
Il closing party firmato Red Bull Music Academy vede gli ultimi reduci di Spring Attitude far ritorno al MACRO Testaccio. Dopo l’apertura affidata al dj-set psych-afrobeat-funk di Venice e la selezione del padrone di casa Andrea Esu, è l’ivoriano ma tedesco d’adozione Mr Raoul K a prendere le redini dell’Outdoor Stage. Il set parte un po’ in sordina e per la prima mezz’ora sembra regalare una bella iniezione di cassa dritta e poco altro. Accompagnato dal fomento generale, però, il nostro sciorina una serie di mine incredibili (“Inspector Norse” di Todd Terje, “Never Grow Old” di Floorplan) e regala momenti altissimi agli astanti. Presa a bene collettiva.
-Livio Ghilardi
INDIAN WELLS
Il producer calabrese di casa Bad Panda Records, dopo due ottimi album all’attivo, sembra pronto a poter fare il definitivo grande salto. Il live nella Factory, seppur fuori fuoco in alcuni passaggi, è esplicativo del talento di Indian Wells, capace di porsi con autorevolezza nel mondo elettronico contemporaneo senza risultare (più) derivativo. Il calore sonoro a cui Ianuzzi ci aveva abituato incontra una inaspettata tensione ritmica che ha reso l’esibizione meno lirica e più fisica. Sempre di più, sempre meglio.
-Livio Ghilardi
CLARK
Last but not the least, arriva Chris Clark a far calare giù il sipario di 4 splendidi giorni di festival. Con la scusa del sipario, però, l’artista inglese si porta via tutto, facendo tabula rasa di (quasi) tutti quelli che l’hanno preceduto, al punto che se penso a Spring Attitude 2015, Clark è la prima o seconda parola che mi viene in mente. Una Apocalisse techno accompagnata da visual azzeccati e suggestivi, capaci di sviluppare visivamente anche i passaggi più psichedelici del live. Un set perfettamente calibrato e studiato nei minimi dettagli, forse ostico per alcuni palati, ma a dir poco clamoroso per qualità e intensità.
-Livio Ghilardi
Lunedì mattina ci siamo svegliati e ci siamo chiesti di default: e oggi, chi suona? E no, lo Spring è finito: resta il report, una fotogallery e la necessità di ricostruirsi i piedi. Quattro giorni di un ballare sfrenato che ci hanno fatto sudare, bestemmiare, apprezzare qualche artista più nella sua veste di dj che in quella di producer, trippare in piacevoli alienazioni, senza essersi necessariamente calati l’impossibile chimica. Lo Spring 2016 fatelo all’Olimpico, o al Circo Massimo, o affittate tutto l’EUR, fate qualcosa per accogliere tutta sta gente arrapata di hype. La ressa ci fa sudare, siamo invecchiati. Lo Spring invece pare proprio un regazzino.