Egli prese il banjo e rese grazie.
Non avrei mai immaginato che un concerto sarebbe potuto essere un’esperienza religiosa. Una funzione sacra in piena regola con fedeli, vetrate colorate, silenzi, momenti di commozione e gioia.
“Grazie. Scusate se sono così triste. Sapete, è un interessante esercizio psicologico per me condividere canzoni che parlano di dolore, morte e perdita con così tante persone in giro per il mondo. E’ un modo di unire i nostri cuori e di celebrare coloro che non ci sono più.”
Quando Sufjan Stevens prende parola al Teatro della Luna di Assago – e lo fa solo una volta, dopo il primo pezzo dell’encore – utilizza delle parole precise, condivisione, unione e celebrazione, che non fanno altro che confermare un’impressione comune: Sufjan sta officiando una liturgia. Un atto di culto completo che si svolge mediante riti, gesti e preghiere. Una messa divisa in due parti: la prima ora e mezza di concerto come professione di fede e preghiera universale; l’ultima mezz’ora come eucarestia, rito della pace e comunione.
Il concerto è incentrato sull’esecuzione dell’ultimo disco Carrie&Lowell, una splendida elaborazione di un lutto che fonde vicende private a mito e vite dei santi a desiderio carnale. Proprio elaborazione è il concetto principale: se il disco registrato in studio appare come il compimento di un lavoro psicanalitico essenzialmente personale, la performance dal vivo di questi brani è la testimonianza di un ulteriore livello di elaborazione. Collettiva, sicuramente, poiché aperta al pubblico. Ma anche e soprattutto per un lavoro, instancabile e ammirevole, sugli arrangiamenti.
Arrangiare le canzoni di Carrie&Lowell andando oltre le spoglie vesti folk degli originali ha un significato profondissimo: è un nuovo momento di riflessione, una volontà di ri-programmare, progettare e formulare un inedito linguaggio espressivo. Un linguaggio basato sui signs and wonders come recita The Only Thing, ovvero quei simboli e meraviglie che convergono in un flusso capace di trascendere i generi musicali. Potremmo parlare di post-rock, di ambient, di prog e elettronica, ma faremmo torto a uno spettacolo di luci e suoni che ha lasciato semplicemente estasiate quasi duemila persone. Da qui la difficoltà di raccontare il concerto di Sufjan Stevens – perché le parole, si sa, sono futile devices.
Potremmo provare a descrivervi una Fourth of July che ha spezzato le ossa con giochi di synth fiabeschi e un epilogo marziale; una Eugene che ha strappato il cuore; una sensualissima e ritmata All of Me Wants All of You, richiamo alla tentazione della carne, con corsa a rotta di collo verso un finale da sballo che si dipana, sfilacciandosi, in una The Owl and the Tanager, per chi scrive una delle vette di Sufjan, una canzone-romanzo paragonabile a “Delitto e Castigo”.
Potremmo parlarvi di musicisti strepitosi, un’esecuzione eccezionale con suoni mai lasciati al caso, di un lavoro superbo sulle code strumentali di ogni brano, elemento musicale portante di Carrie&Lowell, che dal vivo si sublimano nella lunga e intensissima Blue Bucket of Gold, ultimo pezzo che ha preceduto l’encore.
Potremmo pure tentare di descrivere la magnetica presenza scenica di Sufjan, figura spirituale e astratta e allo stesso tempo estremamente fisica e materica, soprattutto nella seconda parte del concerto, quando i toni si fanno più leggeri, i cuori dilatati e ci viene consegnato un compendio folk semplicemente idilliaco: The Dress Looks Nice on You, Casimir Pulaski Day e una Chicago acustica in uno stato di grazia (quasi un “andate in pace”).
Tornando a casa ho ripensato a ciò che ho vissuto. Il 21 Settembre 2015 presso il Teatro di Assago duemila persone hanno assistito ad un miracolo di bellezza. C’è chi lo chiama Dio, chi lo considera amore, chi si appella alla devozione. Ad una nuova vita che nasce. Alla natura che ci circonda.
E cosa si fa davanti alla meraviglia? Si ammira lo spettacolo e si rimane senza parole.