Negli anni, i Darkstar hanno assunto sempre più la definizione di indefinibili. In Foam Island scelgono un approccio inedito, indirizzandosi verso un preciso concept. Basic Things fornisce immediatamente all’album il fascino dell’anonimato, ripetendo all’infinito giovani voci che si sentono incastrate, appunto, nel luogo in cui vivono. Il filo narrativo è tessuto proprio dai campioni di dialogo, tratti da interviste a cittadini del North Yorkshire. I temi –i giovani come risorsa ultima, il loro destino oltremanica- spesso mancano di una controparte musicale sufficientemente coinvolgente: come sempre, l’itinerario più scomodo. A tratti (Inherent In The Fibre, Foam Island) impersonano dei Metronomy più sofisticati, come avessero più tasti a disposizione. In altri momenti la loro meticolosità nella programmazione li avvicina a Oneohtrix Point Never, a proposito di Warp Records e di sintassi poco immediate. Le repentine digressioni di Tillie’s Theme ricordano infatti il cyberduello tra bene e male di Replica, trattato però con britannica discrezione. Sembra così semplice essere buoni, la retta via dovrebbe essere illuminata. L’album termina con lo sfogo di un giovane, che scappa per il gusto di correre, senza sapere da chi e da dove fugge, acquisendo inconsciamente la lezione di Gil Scott-Heron.
La voce appena coperta da un velo di artificialità, ogni pezzo sembra un viaggio in bicicletta pullulante di punti salienti, creature che salutano, palazzi che crescono, sorprese che esplodono.
Come se il muretto della copertina –scelta estetica insindacabile, al solito– dovesse accogliere la seduta di tutte le giovani anime che si alternano nel corso del disco, ma non lo potesse fare in nessun modo: troppi umani non rispettano il potere del tempo, che si vendicherà eccome.
I tempi di Hyperdub sono lontani, ma la densità delle loro tele è rimasta: Pin Secure è una pioggia digitale fluorescente, e si pone come il più libero momento creativo del progetto, la texture più azzeccata. Ogni brano è maniacalmente dettagliato e ben mixato, senza escludere gli attimi più puramente synth-pop come Through The Motion; in quello specifico pezzo, emerge un occhiolino ad Arthur Russell, la più ovvia influenza per un duo di esploratori della vocalità elettronica.
Più digeribile e coeso rispetto a News From Nowhere, l’album presenta un estetica curata non solo in ogni singolo pezzo, ma soprattutto nella totalità strutturale del lavoro.
Il risultato è un dubbio di un’ora, una molecola di spirali interminabili.
La contentezza e il desiderio di fuga si fondono timidamente in una semi-consistente isola di schiuma.
L’atmosfera dell’album è più rarefatta della fitta colorazione del precedente, pur mantenendo lo stile complicato e gentile che contraddistingue le scelte sonore del duo londinese.
Il disco riesce, volontariamente o meno, a rispecchiare il clima di umida rassegnazione dilagante nel Regno Unito: gli spezzoni di dialogo più speranzosi sembrano uno sforzo di immaginazione –Javani’s Call parte da un germe di positività, ma presto acquisisce tonalità aspre- nel passaggio dalla corale accettazione del buio al singolo, già vano spiraglio di luce.
Ancora una volta, i Darkstar escono dalla stanza sotto un velo di astratta eleganza, un sorriso in valigia e una sola certezza ad alzare le loro teste: nessuno fa quello che fanno loro.
Foam Island esce per Warp Records.