[column size=”2/3″ center=”yes”]Cracovia ha sempre esercitato un particolare ascendente nei miei confronti, sarà per il suo costo della vita, in grado di trasformarmi per qualche giorno da studente squattrinato a oligarca russo, o per la cucina, non di certo delle più leggere e dai sapori forti (e come può un piemontese come me non apprezzarla, soprattutto in un Paese dove l’aglio non è considerato uno stigma sociale?); o ancora per le architetture, che contemplano il gotico, il rinascimentale e il barocco, così come il soc-realismo e il brutalismo sovietico. Quello che è certo è che un particolare contributo a tale attrazione lo dà Unsound, eden della musica più sperimentale e avant, che ha individuato nella città polacca la cornice per il suo main event. Una manifestazione che, attraverso un approccio crossmediale, sviscera le mutazioni del sistema-musica, oltre a porre una lente sulle più interessanti realtà del territorio che lo ospita (in particolare fermento, oltretutto). Un festival che è riuscito quest’anno a catalizzare su se stesso grandi attenzioni: fatto appurato dal rapido saccheggio di biglietti di cui peraltro son rimasto vittima. Le soluzioni di ticketing cumulative (il weekly e il long weekend pass) sono infatti andate in soldout in appena 8 minuti, trasformando TicketPro Polonia da un normale retailer di biglietti ad un vero e proprio far west. Vicende che sono fonti di crisi di nervi, ma che sono il prezzo da pagare per un festival a misura d’uomo, lontano dalle grandi soluzioni d’arena, e attento a mettere in luce luoghi suggestivi della città spesso nascosti.
Come al solito, la manifestazione si è dipanata lungo una settimana, toccando diversi angoli della città. Tuttavia, la maggior densità di eventi si è riscontrata nel fine settimana a Kaziemierz, vivo quartiere ubicato tra la città vecchia e la Vistola, nonché cuore della comunità ebraica. Quest’ultima host del festival nella sinagoga Tempel, struttura neomoresca dagli stucchi dorati, che ha accolto le narrazioni post-razziali di Matana Roberts. Un’antropologia musicale, accompagnata dalla fotografie sbiadite del progetto Coin Coin, che nel contesto in cui era collocata metteva in evidenza un implicito gemellaggio tra la black culture e la comunità ebraica. Un set di cui ha colpito soprattutto l’impressionante espressività vocale della compositrice, padrona di un cantato tormentato, quasi agonizzante, così come di una voce soave e cristallina. Una componente vocale, fluviale nei suoi passaggi spoken-word, che ha incontrato linee di sax Coltrane-iane e tappeti di interminabili loop.
Le accuse di satanismo
Di tutt’altro canto la Curia che, dopo una lettera che accusava Unsound di promuovere il satanismo, ha deciso di cancellare tutti gli eventi del festival nei luoghi sacri cattolici. Il testo, pubblicato sul blog conservatore Salon24 da Krzysztof Osiejuk, prendeva di mira i Current93, e più precisamente la back cover di Dogs Blood Rising: l’ennesima accusa di anti-cristianesimo rivolta al gruppo, spesso frutto di fraintendimenti con il dark humor di Tibet. Osiejuk, peraltro esponente del partito di destra Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwosc, PiS), schieramento nazionalista particolarmente influente nel mondo clericale, ha successivamente alimentato la sua infondata accusa con ragioni che rasentano il ridicolo, come il fatto che Gosia Plysa (direttore esecutivo del festiva, ndr.) sia in grado di ipnotizzare le persone con i suoi occhi diabolici e di condurli in lande sconosciute. Ecco, se nessuno è esente dai pericoli provenienti della troll culture, neanche una manifestazione artistico-culturale lo è.
Ad ogni modo, il concerto dei Current93 si è svolto lo stesso, non più nella gotica chiesa di S. Caterina – location del festival dal 2008 – ma nel deposito tram del museo dell’ingegneria, venue particolarmente inflazionata quest’anno. Il concerto si è imperniato sull’ultimo parto del collettivo di Tibet, I Am The Last Of All The Field That Fell, lavoro caratterizzato dal contributo – anche sul palco – di Jack Barnett dei These New Puritans, e Jon Seagrott e Bobbie Watson dei Comus, quest’ultima a fare da contraltare, con la sua voce angelica, al drammatico Tibet. Un arcano folk-rock, lontano dagli esordi industrial, che ha comunque messo in luce la natura sciamanica del frontman, officiante di un rito musicale malinconico, talvolta disperato, talvolta ancestrale.
Burial-gate
Ancora prima del live dei Current93 è andato invece in scena Revelations, attesissimo evento in programma nella sala da ballo delle miniere di sale di Wieliczka, e dalla lineup completamente segreta, se non per il djset ambientale di DJ Richard in apertura. Questo è l’unico evento a cui non ho potuto prendere parte a causa della prontezza delle mie dita (andò più o meno così), ma non mi esimo dal riportarlo, soprattutto per la sua portata mediatica a posteriori. Il confronto incrociato delle testimonianze raccolte durante il festival mi ha permesso di ricostruire l’accaduto: al termine delle due ore con DJ Richard è calato il buio più completo e sono partite voci angeliche di reminiscenza Untrue-iana. Il pubblico era spaesato: sul palco non c’era nessuno. L’artista era infatti su un balconcino dietro al pubblico, in hoodie e di spalle, mentre gli astanti cominciavano a riconoscere la musica che si stava disperdendo nell’etere: era Burial. Ma era veramente lui? Alcuni, utilizzando la logica del rasoio di Occam, hanno ipotizzato fosse Kode9, il quale non ha rivendicato la paternità del set, ma ha comunque sfruttato l’occasione, durante il suo set a sorpresa all’Hotel Forum – un mixato che, oltre alla componente grime, ha fatto da ossequio alla footwork di DJ Rashad – per farsi due risate e fomentare il pubblico con un “make some noise for Burial”.
C’è chi ci crede ancora, chi no. Sicuramente quel che è rimasto di quel set sono insolvibili dubbi, fonti di una psicosi generale – non solo a Cracovia, ma anche sul web – in grado di generare un dibattito vicino alle più vivaci polemiche complottiste. Un esperimento durante il quale il festival sembra aver voluto dirci: “noi vi abbiamo dato un’occasione per ascoltare, siete voi a non averla colta”; affermazione che riconduce indirettamente ai problemi della musica nel XXI secolo, dall’attention span del pubblico alla mercificazione del prodotto culturale. In fin dei conti, una delle migliori trovate del festival attorno al tema di quest’anno: la sorpresa. Concept che mirava a slegare la musica dall’identità del suo autore, abolendo così le categorie pre-esistenti in ognuno di noi. Si è quindi giocato con le percezioni, differenti nel pre- e nel post-esibizione, in modo da interrogarci su come le nostre aspettative influenzino il valore che poniamo nella musica.
Le sorprese
A tal proposito, il caso più eclatante è stata la sorpresa di sabato sera delle 04.15, quando nella piccola e rovente Room 2 dell’Hotel Forum è comparso sul palco Richie Hawtin, figura non di certo ricollegabile al mood del festival. L’artista, collocato in un contesto intimo e in una posizione di primus inter pares, differentemente dai ruoli di grande divinità che riveste negli oceanici festival di tutto il mondo in cui prende parte, ha proposto un set ibrido, a metà tra il suo progetto eponimo e Plastikman.
Meno clamorosa, ma sicuramente graditissima, è stata invece la collaborazione tra Lorenzo Senni e Powell in Hot Shotz, progetto commissionato da Unsound, atto ad unire le anime musicali dei due artisti, apparentemente inconciliabili. Il moto infinito degli arpeggi di Senni si è conciliato con le sonorità ruvide di Powell, portando la musica del producer emiliano ad un raro confronto con dei kick drum. A dire il vero, non si percepisce un vero e proprio equilibrio tra i due stili e, tolto l’intro di stampo maggiormente pointillistic, sembra prevaricare la techno meticcia di Powell. Una constatazione con la quale non voglio assolutamente demonizzare il risultato, dal mio punto di vista encomiabile, che ha portato ad un set trascinante e coinvolgente.
Una world premiere, così come – almeno sulla carta – il set a sorpresa dell’enigmatico duo SHXCXCHCXSH, riconosciuti sulla base del loro outfit da scuri sacerdoti e le loro sonorità di matrice northern. Insomma, la dicitura “world premiere” faceva presupporre la prima di una nuova realtà musicale, quindi – non lo nascondo – la constatazione che fossero gli SHXCXCHCXSH mi ha procurato una leggera delusione. Sconforto che, nel corso dello show, ha lasciato spazio ad un certo entusiasmo. Le sonorità del set, impostato su materiale inedito, sono lontane dalle soluzioni spigolose del primo LP, e seguono la scia del più emotivo Linear S Decoded, sviluppandosi in un lento climax che porta ad un parossismo finale di incredibile suggestione.
Senza ombra di dubbio uno dei miei highlights del sabato sera all’Hotel Forum, derelitto dell’epoca comunista che, in seguito al riutilizzo da parte di Unsound, è diventato un importante hub culturale della città. Struttura di cemento dalle forme cartesiane – come d’altronde impogono i canoni brutalisti – che ha accolto le tre club night del festival. Circostanze nelle quali abbiamo potuto assistere, oltre alle sopra citate sorprese, agli inaspettati set di Xosar, dei T’ien Lai, miglior atto polacco del festival e perfetto prodromo per il successivo set di Shackleton grazie al suo carattere fortemente percussivo e ritualistico, e Marcus Schmickler, artista che non ho mai digerito fino in fondo per il suo approccio troppo nerd, ma il cui live è sicuramente riuscito a sovvertire il contesto clubbing in cui eravamo calati.
Aldilà dell’Hotel Forum, sul quale ritorneremo, ha destato il mio interesse anche l’evento di sabato pomeriggio, Ring of Gyges. Giunto alla location al termine delle improvvisazioni folk/blues di Bill Orcutt, non avrei mai potuto immaginare che da lì a poco avrei disceso una voragine, vestendo i panni di un moderno Gige. Uno squarcio provocato dai movimenti tellurici di Fis, il cui set è sembrato la sintesi musicale dei suoi scuri istinti. Un vero e proprio maelstrom che ha anticipato i lenti crescendo fatti di drone, noise, suoni saturi di rumore bianco e ritmiche pulsanti di Helm. Una performance accompagnata dalla disperata danza di un artista performativo, che va a suggellare un warm-up pomeridiano annichilente, mettendo così a dura prova le nostre capacità fisiche dopo due notti di Hotel Forum. Notti imperniate su due particolari leitmotiv: l’accelerazionismo e la musica post-coloniale.
Il dancefloor cibernetico
Cos’è l’accelerazionismo? Adam Harper, durante il suo talk nel quartier generale di Unsound, ha ripreso le parole di Robin Mackay e Armen Avanessian affermando che l’accelerazionismo è “la convinzione che l’unica risposta politica radicale al capitalismo sia l’esasperazione delle sue tendenze alienanti”. Una filosofia politica che ha radici lontane (il futurismo italiano) ed è arrivata ad influenzare l’underground musicale, finora caratterizzato da una retromania imperante (lo-fi e supremazia etero). Ad ogni modo, l’accelerazionismo possiede feroci detrattori, soprattutto per “il suo status inquieto, tra la sovversione e l’acquiescenza, tra l’analisi realista e l’esacerbazione poetica”, senza tuttavia perdere il proprio interesse, tanto che diversi esponenti di questo ritorno al futuro hanno partecipato al festival. In particolare il giovedì, quando hanno avuto luogo le performance di Holly Herndon e degli Amnesia Scanner, quest’ultimi portabandiera della Janus, cellula terroristica da club da cui provengono nomi come M.E.S.H, Kablam e Lotic, anch’egli presente all’Unsound con tanto di tubino trasparente di pizzo per un set a sorpresa alle 5 di notte del giorno seguente – orario proibitivo vista la mia precoce senescenza. La loro è una musica aliena, talvolta disorientante, talvolta euforica per le sue esplosioni HD e i profondi bassi che il soundsystem mi sbatteva in faccia. Musica da (non) club che ha anticipato il particolare avant-pop di Holly Herndon. L’ultima volta che la vidi fu nel 2013 alla Fondazione Sandretto di Torino per Club To Club, e da quella circostanza non ho potuto che osservare la disinvoltura che l’artista ha acquisito sul palco. Oltretutto, a suo tempo la Herndon aveva rilasciato solo Movement, disco piuttosto chiuso in sé stesso, che nella nuova tournée è stato rimaneggiato secondo soluzioni più aperte, proprie di Platform. Una tournèe che vede la partecipazione di Colin Self ad arricchire la componente vocale e di un visual artist in grado di rendere la performande particolarmente interattiva.
Tuttavia, perdiamo gli ultimi minuti di live per dedicarci al set di Angel-Ho, boss della NON Records, realtà sotto le luci della ribalta soprattutto per la sua elevata politicizzazione. In pantaloncini corti e collant, il sudafricano ha raddoppiato la propria performance in chiusura di serata con un b2b a sorpresa con Rabit: un djset a metà tra il distopico e Rihanna, vera protagonista di questo Unsound per il reiterato uso dei suoi brani durante il festival.
Il dancefloor decolonizzato
Grande attenzione è stata inoltre dedicata alle sonorità global, visto il coinvolgimento di artisti come Nozinja e cenacoli artistici come la Principe, al festival rappresentato da DJ Nigga Fox, Nidia Minaj e DJ Firmeza. Il primo ha animato il secondo stage dell’Hotel Forum con un set particolarmente coreografico, per la presenza di tre vocalist/ballerini, al quale non è stato difficile abbandonarsi grazie ai veloci beats e il calore della sua Shangaan electro, ricontestualizzazione dance del folklore sudafricano. Un esempio eclatante di questa scena post-coloniale, in espansione grazie alla natura borderless della Rete, in grado di conferire a numerose realtà musicali del Terzo Mondo la possibilità di ridefinire il locale. Confini travalicati e frontiere abbattute anche nel particolare centrifugato afro-portoghese della Principe, in cui vengono mescolati stili di provenienza angolana e capoverdiana. Tutti i set si sono focalizzati prevalentemente sulla ripetitività delle percussioni, aspetto prominente nelle produzioni Principe, differenziandosi principalmente per i dosaggi degli stili musicali adottati, passando dalla batida di Firmeza all’alchemia kuduro di DJ Nigga Fox, probabilmente il più convincente dietro ai piatti.
Ephemera
Dall’anno scorso è stato invece riproposto – in una nuova forma – Ephemera, progetto multisensoriale atto ad unire la musica – i bassi di Kode9, i droni di Tim Hecker e il noise di Ben Frost – e le fragranze di Geza Shoen. Non più nelle tre stanze della branca del Museo nazionale cittadino, Ephemera ha occupato un piano di un ex fabbrica di sigarette, per l’occasione completamente invaso dal fumo e dai fasci di luce controllati da MFO. Un contesto nel quale si è tenuto il live set, congegnato ad hoc, di Tim Hecker, canadese del quale non sono una novità le abilità da demiurgo del suono, in grado di scolpire con maestria rifrazioni apparentemente incontrollabili. Diversamente dalla tournée di Virgins, l’esibizione si è svolta sotto un susseguirsi cromatico di luci, perlopiù assenti nelle sue esibizioni. Aspetto che si è ripercosso sul set, più armonioso e meno cinereo rispetto al passato, per quanto fuligginoso. Sicuramente l’esperienza più intensa dell’intera rassegna polacca, di cui si può recriminare solamente la pretesa sinestetica, non del tutto realizzata, in quanto il profumo è stato completamente occultato dal mio olfatto dopo pochi minuti.
Last, but not least
Tirando le somme dell’Unsound, non possiamo però dimenticarci di Prurient, il quale mercoledì sera ci ha accolto al Manggha (il museo di arte orientale di Cracovia, ndr.) con le note sommesse di Jester In Agony, per poi investirci con il suo harsh noise e il suo tripudio di feedback, mentre lui correva nevrastenico da una parte all’altra del palco. Così come non possiamo escludere dal nostro racconto Alessandro Cortini, unico italiano insieme a Senni presente al festival, e autore di una performance magnetica, in grado di catturarci con il flusso onirico e notturno dei suoni rigettati dai suoi synth, interrotto solo da una digressione industrial-techno dal retrogusto Skarn e da un finale piuttosto abrasivo. Un set che ha anticipato i Liturgy e le loro sfuriate chitarristiche provenienti da Ark Work. Disco che live risulta meno pomposo, ma che ha permesso comunque al batterista Greg Fox di dare adito ad un’energica performance, bissata la domenica nella jam session pomeridiana con Jerzy Mazzoll, Piotr Zabrodzki e Oren Ambarchi: vera chicca del festival e paradigma del tema di quest’anno, in quanto Fox non era a conoscenza degli artisti con cui avrebbe dovuto interagire.
Vi sono state poi altre esclusive Unsound come il connubio tra le visioni naturalistiche di MFO e la dubtronica di Pole, e il debutto live di Visionist. Sul palco goffamente irrigidito, Visionist ha imbastito la sua esibizione su narrazioni ansiogine, musicalmente vicine alla Janus, per quanto maggiormente legate agli stilemi classici del grime strumentale rispetto agli esponenti di questo collettivo. Un live ben congegnato, che convince fin dal suo debutto (cosa che per esempio non era successo l’anno precedente con la prima dal vivo di Jam City). Aggiungiamo poi all’appello i martelli pneumatici dei Romans (Tin Man e Gunnar Haslam) e di Prostitutes, le casse rullanti iperfuturiste di Jlin e lo scatenato, per quanto impeccabile, RP Boo. Meno convincente invece il set breakcore di Andy Stott, e gli Health, autori di una performance piuttosto piatta. Metto invece a margine il set a quattro mani tra Rabit e Kuedo, di spessore, ma deludente se valutato secondo le mie aspettative, in quanto convinto di una commistione tra i suoni dei due artisti, quando invece vi è stata solamente una successione senza soluzione di continuità dei live dei due artisti.
A questo punto, se vi è l’ipotesi – circoscrivendo la nostra indagine a manifestazioni affini ad Unsound – che ci sia un festival migliore a livello di lineup, o anche solo come attenzione all’offerta corrente del sistema-musica, è invece indiscussa la superiorità del concept di quest’anno. Un esercizio psicologico, che qualcuno dice averlo annoiato, altri persino irritato, ma che ha sicuramente condizionato l’esperienza festivaliera nel suo complesso. Un’esperienza arricchita da location affascinanti e da un pubblico internazionale educato ed interessato: una condotta positiva ormai rara, nonché principale valore aggiunto dell’Unsound.[/column]
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