Pelè Good, Maradona Better, George Best
Oggi, 25 novembre 2015, sono trascorsi 10 anni esatti dalla morte di una autentica divinità calcistica che – per usare la consueta struttura delle liste di Nick Hornby in Alta Fedeltà – rientra di diritto nella top 5 dei più forti calciatori di sempre: George Best. Lasciamo agli appassionati di pallone tra voi stabilire poi su quale gradino della classifica porre il giocatore nordirlandese (c’è infinita disputa in dottrina).
Se le sue incredibili capacità di dribbling o il suo fiuto del goal non vi convincono a incoronarlo come il più grande di sempre, è pressoché impossibile contestare il ruolo dirompente avuto da George Best nell’immaginario collettivo britannico e mondiale. Denominato da più parti “il quinto Beatle” per la sua acconciatura e per il suo vestiario, il calciatore di Belfast è probabilmente passato alla storia più per i suoi eccessi fuori dal campo che per i trofei vinti a Manchester (sponda United).
Donne, motori, gioco d’azzardo e – fatale – alcool hanno costellato la vita di Best, trasformandolo in un’icona alla stregua delle più famose rockstar degli anni Sessanta e Settanta e conducendolo, infine, al baratro degli ultimi anni di vita e al precoce decesso a soli 59 anni. Una morte tragica, incastonata nella foto pubblicata da News of The World su richiesta esplicita del calciatore ridotto in fin di vita sul letto di un ospedale, a mo’ di monito: “Don’t die like me”.
Se la morte ha aumentato ulteriormente lo status di icona di Best, anche in vita sono stati diversi i tributi che il mondo delle arti gli hanno riservato. Il più emblematico e qualitativamente azzeccato è l’esordio dei The Wedding Present, pubblicato dalla band di Leeds nell’ottobre del 1987 e intitolato, appunto, George Best. Anche la copertina del disco – approvata da Best stesso – ritrae il calciatore in campo con la maglia dello United, capelli fluenti e barba. Dietro alla creatura musicale inglese c’era e c’è ancora David Gedge, voce, chitarra e unico membro permanente di una formazione che nel corso dei decenni ha subito diversi stravolgimenti. Nati dalle ceneri dei Lost Pandas, i Weddoes – così vengono chiamati affettuosamente dai tanti fans sparsi per il globo – fecero la loro prima apparizione discografica con This Boy Can Wait sulla mitologica cassetta C86 pubblicata da NME appunto nel 1986. La compilation presentava in modo molto eclettico 22 band del circuito indipendente britannico di allora (i Primal Scream inauguravano la prima facciata), alcune delle quali accomunate dalle cosiddette chitarre jangle rese celebri in primis da Johnny Marr degli Smiths. Per traslazione C86 poi divenne il termine usato dalla critica musicale per indicare uno stile e una scena di cui punte di diamante erano i Pastels, gli Shop Assistants e – nonostante Gedge abbia rigettato più volte la dicitura – i Wedding Present. Molti dei gruppi indie-pop, twee o dream-pop che veneriamo oggi devono tanto a questi artisti, i quali a loro volta nacquero come comprimari degli Smiths proprio nel momento in cui parabola artistica di Morrissey e soci stava per chiudersi definitivamente (ahinoi).
A differenza dell’iconico calciatore citato nel titolo, le storie raccontate dai pezzi di George Best raccontano l’epopea giornaliera di un qualsiasi ragazzo dell’Inghilterra di fine anni Ottanta, con la capacità rara di narrare sentimenti importanti con leggerezza e al contempo di trattare l’ordinario con piglio quasi poetico. Nella musica riecheggiano le chitarre jangle di smithsiana memoria, il post-punk di Fall e Gang of Four ma anche il punk più melodico dei Buzzcocks e di quegli Undertones che proprio di Best erano conterranei. Non mancano poi i riferimenti musicali a tutta la scena sixties britannica di cui il calciatore nordirlandese era il corrispettivo sportivo: nella versione estesa di George Best i Wedding Present riprendono proprio Getting Better, giusto per chiarire ulteriormente quali siano i numi tutelari. Ciò che rende unica la band di Leeds rispetto ai colleghi è però la voce di Gedge, sia per il suo marcato accento del West Yorkshire sia per l’incedere caracollante o improvvisamente calzante con cui accompagna la chitarra strimpellante di Peter Solowka. Uno stile vocale inconsapevolmente influente: basti citare Eddie Argos degli Art Brut.
George Best e i successivi album in studio – alcuni dei quali eguaglieranno (Bizarro) o addirittura surclasseranno l’esordio (Seamonsters) – consacrarono i Weddoes come la band indie-pop più famosa d’Inghilterra, allora benedetta persino dall’accanito fan del Liverpool John Peel – che non mancò di notare come, nonostante il tributo a Best, fossero un gruppo da tenere d’occhio – e oggi paradossalmente più apprezzata oltreoceano che in patria (basti pensare agli apprezzamenti da parte dell’etichetta Captured Tracks). La storia da gregario di Gedge, così lontana da quella del calciatore immortalato nella copertina dell’esordio, continua ancora oggi, con nuove uscite e tour celebrativi, sempre connotati da quell’accento strambo e da quella rara capacità di raccontare la poesia della quotidianità col pop, in un modo che è riuscito meglio solo a Jarvis Cocker dei Pulp.
Rosico ancora a essermi perso i Wedding Present al Primavera Sound due anni fa. Riascoltando George Best mentre riguardo filmati d’epoca del calciatore britannico, mi piace pensare che con quel disco si siano incontrati simbolicamente la stravaganza e l’ordinarietà, il genio e la mediocritas, legate però indissolubilmente da un nesso costante: la poesia delle fragilità umane.