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In ginocchio sul tappeto, naso all’insù e bocca spalancata. Ce lo possiamo immaginare così John Mayer a dieci anni, nel salotto di casa, mentre guarda Michael J. Fox suonare Johnny B. Goode, con una Gibson Es-345, che nel ’55 non era neanche stata inventata. Nato a Bridgeport, nel Connecticut e cresciuto in un posto là vicino, si innamora della chitarra in quell’esatto momento, come altre migliaia di persone al mondo. Insomma, niente di particolarmente inusuale.
John Mayer, a distanza di quasi trent’anni da quell’evento, ha vinto 7 Grammy, ha ricevuto 19 nomination, ha accumulato vagonate di dischi d’oro e di platino e, nel Febbraio del 2015, ha presentato, come host guest, il Late Late Show sulla CBS, per tre serate consecutive.
Questo è un po’ più inusuale.
Qualcuno, qui da noi, lo ha sentito nominare per la prima volta in occasione del suo opening act allo show dei Rolling Stones, al Circo Massimo, l’estate scorsa.
Se il valore di un artista venisse misurato in base ai premi, ai dischi e ai riconoscimenti, JM non stazionerebbe né tra i primi posti, né tra gli ultimi. Con un’analisi del genere, però, si commetterebbe il grave errore di non considerare il triangolo marketing-soldi-mass media, che determina ciò che viene trasmesso, quindi ciò che viene ascoltato, dunque ciò che viene acquistato o scaricato. Dietro al seguito sterminato che JM vanta negli USA c’è, naturalmente, il triangolo summenzionato, ma anche un insieme di fattori personali che lo ha portato a vantare una massa di simpatizzanti alquanto vasta ed eterogenea.
La promiscuità della sua musica è uno di questi fattori e si è rivelata sempre una calamita ad ampio raggio, nonché una costante all’interno della sua trasformazione artistica. Nel 2001, Room For Squares – che lo immerge nel grande mercato – esce con un singolo che è una canzone pop ad alta rotazione; una di quelle che si è costretti a sentire per radio in cinque luoghi diversi, durante l’arco di una sola giornata. “Vuoi l’amore? / Lo faremo / nuoteremo in un profondo mare di coperte” è la frase che suggella un prodotto così mainstream, che, se si chiudono gli occhi ascoltandola, pare di sentire le urla stridule e spacca-cristallo delle teenagers americane in crisi ormonale. Attingendo dalla versione live inclusa in As/Is – primo lavoro dal vivo, pubblicato con neanche due dischi all’attivo – neppure c’è bisogno dell’immaginazione: la voce calda di JM introduce il pezzo con “this is a song about girly parts” e, a quel punto, o si abbassa il volume dello stereo o si decide di perdere il proprio servizio di bicchieri preferito.
Eppure, proprio quella voce calda si lascia accompagnare, in altri episodi di Room For Squares, a fraseggi di chitarra e passaggi melodici di rara acutezza, che ricordano a tratti una versione maschile di Alanis Morisette, a tratti una riproposizione del primo Dave Matthews. Why Georgia è un’ottima canzone pop-rock e Neon, dal retrogusto funky-fusion, lascia intravedere le abilità tecniche di Mayer con le sei corde.
Heavier Things (2011) confermerà quanto detto, con alle spalle, stavolta, una produzione più azzimata e, soprattutto, un succoso contratto con la Columbia. Alcune tendenze sottocutanee (più blues, più soul, più jazzy) sembrano voler emergere al di sopra dell’epidermide, pur non riuscendo a manifestarsi del tutto. Sono proprio queste ad incuriosire una fetta di pubblico diversa da quella delle “rompitrici di bicchieri”. E’ la parte di pubblico che suona uno strumento.
Try! – il progetto live successivo – è il padrone che sguinzaglia il cane, lasciandolo correre libero per il parco. In questo parco Mayer trova un vero e proprio locus amoenus, un posto in cui dire quello che più gli aggrada, senza l’ansia di dover piacere a qualcuno o di dover ottenere una firma su un pezzo di carta. Insieme a lui ci sono Steve Jordan (batteria) e Pino Palladino (basso), l’esatto contrario del concetto “ultimi arrivati”. In tre compongono una formazione che abbatte qualsiasi interposizione tra chi suona e chi ascolta. Sound scarno e diretto; si esegue quello che si vuole, ossia quello che Mayer ascoltava in camera sua da piccolo, dopo essersi rivisto per l’ennesima volta il VHS di Ritorno al Futuro. C’è Jimi Hendrix, Ray Charles, qualche vecchio pezzo e qualche brano inedito, che poi entrerà nel successivo Continuum (2006) e che quasi non sembra uscito dalla penna – non solo quella che scrive, ma anche quella che pizzica – dello stesso autore di Your Body Is a Wonderland. Tra questi brani c’è Gravity, che il pubblico imparerà a conoscere soltanto più tardi.
In un segmento che rappresenta il passaggio dalla morbidezza all’asperità, Gravity è un punto che si trova all’estremo opposto di quest’ultima. Sopra ad un velo sottile di tastiera, aleggiano la voce e la Fender di Mayer, incastonate tra la batteria di Jordan e il basso di Palladino, che esonda corposo dalle dita per inocularsi e rimbombare nello stomaco, passando per forza dalla gola, che altro non può fare se non deglutire, come a buttar giù un miracoloso nepente per l’anima. Gravity è una dolce resa, il gesto dell’abbandonarsi per scivolare lungo il declivio di un piacevole deliquio, che termina con i cori soul in fade out, quasi a dire che nella pesantezza dell’esistere c’è solo un modo per sconfiggere la gravità: arrendendosi ad essa.
Continuum sarà, pacificamente, con la sua vincente mistura di soul, blues, jazz e folk, il punto più alto della carriera dell’americano, una carriera che proseguirà in Montana – dovendo combattere pure contro un granuloma alla gola – tra derive country-folk.
Dopo il terzo album di inediti, il pubblico nascosto e timido dei “suonatori” emergerà senza remore, come il suo talento nelle lunghe improvvisazioni dal vivo, che nell’uscire dal percorso tracciato in studio si compiacciono, portando a buon fine una continua ricerca edonistica. A questo punto, andare ad un concerto di Mayer significa avere a che fare con un pubblico talmente variegato che sembra messo là da qualcuno, dopo una scelta casuale. Invece, tutti quegli spettatori cantano insieme e conoscono i testi a memoria ; una volta terminato il live, nelle proprie auto, ascolteranno chi Rihanna, chi Stevie Ray Vaughan, chi i Police e chi i Metallica.
Un dato più attendibile, rispetto a quello delle vendite, dei premi e dei riconoscimenti, è quello delle collaborazioni. Dopo Continuum e il successivo Battle Studies (2009), un gran numero di artisti affermati saranno disposti a duettare con il giovane JM e questo gli conferirà una discreta credibilità. Soprattutto, però, gli permetterà di attraccare la propria imbarcazione a moli musicali non propriamente suoi e di titillare, per contingenza, anche l’attenzione di chi difficilmente gliel’avrebbe rivolta. Con Chris Botti esegue Sinatra al Dave Letterman Show (qui), con John Scofield omaggia Ray Charles (qui); nel corso degli anni si affianca più volte ad Eric Clapton, BB King, Chick Corea, Herbie Hancock e Buddy Guy.
L’arma in più è il completo asservimento alla trovata commerciale. Se esistono dei motivi per non accettare ogni tipo di mossa di marketing, JM non conosce questi motivi. Nel 2008 organizza la MayerCraft, una crociera in cui chiunque può salire a bordo, naturalmente pagando. Seicento dollari e ci si può muovere insieme a lui, ai suoi amici musicisti e ad altri duemila passeggeri, destreggiandosi tra feste, concerti e spettacoli. Per JM si tratta, ovviamente, di un buon espediente per fidelizzare centinaia di fans, per raccogliere proseliti e per alimentare un egotismo che mal si cela dietro ai suoi muscoli e ai suoi tatuaggi; purtroppo, la MayerCraft è stata anche l’occasione per dar vita a scene come questa.
Col tempo, esibirsi insieme ad artisti tipo Ed Sheeran, Alicia Keys, John Legend, Kanye West, Jay-Z e Katy Perry – sua attuale compagna – è stata un’altra importante mossa pubblicitaria, ma stavolta in senso bilaterale e non soltanto unilaterale. Da un’analisi leggermente più profonda, però, si evince che collaborazioni di questo tipo sono anche il sintomo di un’ampia apertura al mondo musicale. JM ascolta di tutto, divertendosi tra playlist spiccatamente democratiche. Aspetta con impazienza l’ultimo di Beyonce e, se è di suo gradimento, fa un tweet per farlo sapere a tutto il mondo; poco dopo, senza troppi fronzoli, fa uscire una cover acustica di XO, scaricabile a pagamento da iTunes. Se entra in fissa con l’ultimo singolo dei Coldplay, lo inserisce nella scaletta del suo concerto, facendo cantare tutta l’arena, magari dopo aver suonato Lenny di SRV.
JM è diventato quello che è per aver unito le sue abilità musicali ad una cominicatività (che a volte lo ha pure cacciato in qualche guaio) e una capacità di adattamento fuori dal comune, tenendo unito il tutto con la passione e la spensieratezza artistica. Il confine fra essere un artista “eclettico” o un “venduto”, secondo molti, sarebbe labile, se non fosse che il ragazzo di Bridgeport è sempre stato, prima di tutto, un artista pop, dalla prima canzone che ha scritto fino all’ultima.
Per questo motivo John Mayer è il nerd davanti al computer; è la ragazzina che balla Shakira in camera sua; è il quarantenne innamorato delle canzoni che gli faceva ascoltare suo papà; è il settantenne nostalgico, che custodisce geloso i vinili della sua gioventù; è il nipotino di questo, che segue le gesta dell’ultimo rapper afroamericano; è il chitarrista sfegatato, che fa di tutto per imitare il suono di SRV con la sua Stratocaster. Soprattutto, per sua fortuna, è ancora quel ragazzino che guarda Ritorno al Futuro nel salotto di casa sua.
In ginocchio sul tappeto, naso all’insù e bocca spalancata.
esibizione emblematica: occhiali da sole, tatuaggi in mostra, movimento pelvico e una delle più belle versioni contemporanee di Ain’t No Sunshine di Bill Withers. Avesse imbracciato l’esatta Gibson utilizzata da Mary McFly, il sottoscritto avrebbe avuto il finale perfetto per questo pezzo.
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