Quando avevo 11 anni leggevo voracemente, quasi in un impulso di bulimia, la collana dei Piccoli Brividi – una specie di incrocio ben riuscito tra Edgar Allan Poe e gli Harmony. I libri erano sostanzialmente tutti uguali: trame più o meno replicabili, prosa fatta con lo stampino ma soprattutto un’efficacissima ripetizione di alcune espressioni. Quella che mi rimane ancora in testa è questa: “spalancò la bocca ma non riuscì ad emettere nessun suono“. Un’immagine terrificante che ben si abbina al disco Silent Shout del duo svedese The Knife (i fratelli Olof e Karin Dreijer) sia da un punto di vista di significante (l'”urlo silenzioso” del titolo) che da un altro, più profondo, di significato.
Riascoltare quel disco a distanza di dieci anni è, ancora adesso, un’esperienza perturbante. Il senso di oscura minaccia e di inquietudine si manifesta subito dalle atmosfere del disco, cariche di una tensione che si taglia con un coltello (basta sentire i synth glaciali di The Captain o la title track per avere un’idea). Non solo: tutto il disco è percorso da un clima di trattenimento, come se quell’urlo silenzioso fosse simbolo e manifestazione di un senso costante di imprigionamento. Urlo muto: galleggiante giallo in un inconscio a tenuta stagna; mina pronta a esplodere al minimo smottamento del terreno; sussurri e grida che non hanno voce – ma che, invece, danno spazio a più voci.
L’elemento vocale è un punto fondamentale nella dinamica di Silent Shout. La voce di Karin Dreijer Andersson suona come una Bjork distorta o come Zuul dei Ghostbusters, doppiata e moltiplicata, pitchata e distribuita su più tracce. Impossibile distinguere il genere di chi canta: questo effetto confusivo e straniante è fortemente ricercato da Karin – che, con orgoglio, rivendica l’espressione musicale come un linguaggio a-sessuale, da ascoltare senza preconcetti. Da qui la scelta di pitturare i volti, indossare maschere e costumi di scena, nascondersi dietro a luci ed effetti teatrali: ciò che muove la loro poetica – e quindi la loro politica musicale – è la volontà di essere nessuno e centomila, canovaccio bianco e identità multiple che ci intrecciano e confondono. Identità come la voce civettuola di Neverland e Like a Pen, il coro in formato familiare di We Share Our Mother’s Health, la cantilena infantile di Na Na Na, la femme fatale e disturbante di Marble House (al quale partecipa anche Jay-Jay Johanson), il Poltergeist vocale di One Hit.
Non è un caso se i The Knife hanno supportato materialmente il Feminist Initiative, partito femminista svedese, aiutandolo ad acquisire più prestigio: Silent Shout è un pamphlet appassionato pieno di invettive nei confronti della brutture della società contemporanea. Neverland e We Share Our Mother’s Health mettono in scena rispettivamente una venditrice di amore (I’m doing it for dollars and for a fancy man) e il conflitto tra consumismo e etica ambientalista (Trees there will be/Apples, fruits maybe/You know what I fear/The end is always near), tuttavia finiscono allo stesso tempo, proprio a causa del gioco di pitch di voci maschili e femminili, per rappresentare il pensiero dominante maschile che mette a repentaglio la salute di Madre Natura (appunto, Mother’s Health).
Un gioco di ruoli ma anche di dinamiche di potere, affine alle violenze impalpabili tra URRS e USA durante la Guerra Fredda o le tensioni nelle opere di Harold Pinter, è rintracciabile anche nella durissima One Hit, un vero trattato sulla violenza domestica e sul ruolo della donna (So where’s the femininity/The one with skirts and high heels/A shiny sink and home made meals) e in Forest Families, quasi a ribadire quel divario tra stato di natura e civile, qui rappresentati dalla donna e dall’uomo (Too far away from the city/We came to breathe clean air/Nature left a safe oasis/And the mothers walked towards the forest). Altri temi toccati dal duo in Silent Shout sono l’anoressia (Like a Pen), la dipendenza dai media (From Off to On), il suicidio (Still Light), la guerra vista dai soldati (The Captain).
Tante le letture che si possono dare a Silent Shout, album di un’obliqua e misteriosa bellezza: impossibile non dedicare una menzione speciale allo stile. Al netto di una pletora di etichette più o meno variegate (electro-pop, synth-pop, techno-pop), ciò che svetta in Silent Shout è la ricerca di una forma-canzone ben riconoscibile. A fare la differenza sono le melodie e senza dubbio i suoni, richiamo palese alla musica degli anni ’80. Synth grassi come melassa, ritmi freddi con rullanti riverberati, hook memorabili: tutto rende Silent Shout un prodotto super-pop filtrato con una sensibilità da dancefloor e con un occhio a quella tradizione storica di elettronica nordica che ha vantato, durante tutti gli anni ’90, un numero imprecisato di hit in classifica.
Grane spesse come il basso di From Off to On non possono non far pensare ai synth di Take My Breath Away; il riff ripetuto Na Na Na riconduce al synth di Save A Prayer dei Duran Duran; Marble House, pezzo eccezionale, non è dissimile dal capolavoro dei Matia Bazar, Tango. Tutto il disco in generale sembra trarre ispirazione da The Man Machine dei Kraftwerk e Reproduction dei Human League (sentite Empire State Human e fate il giochino delle differenze), album di pura new-wave nera come la pece.
Così come è nera, dopo tutto, la Svezia. Un paese che ha, nei suoi punti più a nord e nei periodi di gelo, una media di 3/4 ore di luce al giorno. Mi piace pensare che lassù, in quei posti sperduti, un disco come Silent Shout suoni incessantemente.