Burattinaio di Roma Est e principale protagonista dell’underground nostrano, Toni Cutrone è il gestore del febbrile cantino del Pigneto che porta il nome di DalVerme, il deus ex machina della No=Fi, e la mente (e il corpo) che si cela dietro all’oscuro officiante Mai Mai Mai. Intercettato durante i concitatissimi giorni di Thalassa, la parata dell’Italian Occult Psychedelia, si è raccontato sulle nostre colonne in vista della data milanese di stasera.
Sei un musicista molto prolifico, pusher di cassette per conto della tua No=Fi e gestore di uno dei principali avamposti culturali di Roma. Tutte così strettamente connesse, per carità, ma come fai a conciliare tutto?
(Ride, ndr.) Allora, partiamo dal fatto che tutto è veramente unito. Per dirti, la No=Fi fondamentalmente lavora con gruppi e personalità che mi sono vicine. Se prendi le ultime uscite, quelle di Nastro, Rainbow Island o Lamusa, sono tutte realizzate da persone che crescono in quel sottobosco chiamato “Roma Est”, chi più, chi meno; mentre i gruppi stranieri coinvolti nel progetto sono composti da persone con cui sono stato in tour o con cui ho trascorso del tempo insieme. Insomma, è una grande famiglia, tenuta insieme proprio dal fatto che io giro parecchio e che organizzo in città, attività che peraltro portavo avanti già da prima del DalVerme. Lo facevo con un piccolo network DIY: a Torino c’era Stefano dei Movie Star Junkies, a Bologna c’era Richi, all’epoca G.I Joe, adesso In Zaire; c’erano Federico dei Father Murphy in Veneto e degli amici giù a Napoli. Si provava ad organizzare i tour dei gruppi che ci piacevano per farli arrivare nelle nostre città, e da lì nascevano le conoscenze: facevi il tour insieme a qualcuno di loro e No=Fi era un modo per concretizzare – attraverso un’uscita – questo rapporto. Ma anche un modo per mostrarsi all’esterno, e Borgata Boredom, che è un po’ il manifesto di Roma Est, ne è l’esempio eclatante. Comunque sì, a livello di tempo è molto complicato conciliare tutto, e quando giro molto scendo a qualche compromesso. Ad esempio quando sto tanto in tour, il DalVerme lo portano avanti i miei soci e collaboratori anche senza di me, mentre No=Fi, se sono parecchio impegnato con il locale o con Mai Mai Mai, rimane un po’ in stand-by. Nonostante questa difficoltà, si tratta comunque di un equilibrio che al momento sta funzionando, dato che si tratta di tre cose che vanno d’accordo: non è che sono un pugile e allo stesso tempo l’owner di un’etichetta musicale (ride, ndr.).
Quindi è la creazione di questa rete di relazioni ad averti aiutato a gestire le tue tre anime. Un network che ha portato anche il DalVerme a diventare una delle colonne portanti della scena romana (e non), e la No=Fi un riferimento della scena DIY italiana. Una cosa: qual è il tuo rapporto con la scena romana?
Con la scena romana c’è amore e odio. Io sto a Roma da diverso tempo e sono cresciuto con una serie di persone che poi si sono trasformate in quella che è la scena di Roma Est: abbiamo organizzato festival, abbiamo aperto locali (c’è anche il Fanfulla, che è un’altra realtà fondamentale), ecc… Insomma, siamo riusciti a fare quello che siamo adesso proprio perché siamo più persone ed è un gran collettivo super attivo. Ma se da una parte la città si dimostra estremamente produttiva, dall’altra mi fa storcere il naso perché è molto chiusa in sé stessa. Molti si fanno ingurgitare, fagocitare da Roma, così grande e così piena di cose che questi si accontentano di vivere in un’enorme bolla e sono in pochi quelli che vogliono portare fuori quello che si fa in città. Sarà che io non sono neanche romano, ma questa condizione di autosufficienza non mi ha mai convinto totalmente. Detto ciò, Roma rimane una città ricca di opportunità e soprattutto variegata. Infatti, “Roma Est” non è solamente una connotazione geografica, ma anche di attitudine, perché qua al Pigneto si è sviluppato il ramo della musica più strana, più weird; parlo di noise, sperimentazioni, garage e cose sporche. Una scena totalmente diversa da quella stoner/psych o dalla scena indie-pop, che a Roma è grandissima, in realtà la più importante a livello di numeri. Noi dopotutto siamo una nicchia, e riusciamo ad esserlo proprio per l’ampiezza del mercato della città.
Ritornando alla prima domanda, come musicista ti ho definito “prolificissimo”, ma direi anche “itinerantissimo”. A proposito, quale sono le differenze che incontri suonando in Italia e all’estero?
Prima di tutto è difficile parlare di Italia in maniera unitaria, perché comunque ci sono diverse zone e diverse scene, poi ovviamente quando suoni all’estero un pizzico di attenzione in più è come se ci fosse, proprio perché sei un musicista che arriva da un altro Paese. È come quando si organizza in Italia un gruppo americano, tedesco, francese o giapponese… Sai, è una roba che non ti capita proprio tutti i giorni di vedere. Tuttavia, l’Italia è uno dei posti più belli dove girare, per la gente, per il pubblico, per come questo reagisce ai set: è molto stimolante. Credo anche perché l’Italia è un Paese in cui è molto difficile organizzare: chi lo fa è una sorta di combattente. Ed è una cosa che si sente tanto rispetto ad altri Paesi, dove magari c’è anche più ricchezza. Faccio l’esempio opposto che è la Svizzera, dove ci sono sempre i cachet più grandi, il mega albergo, il mega locale con il mega impianto…
Ma manca il resto.
Sì. In Italia è molto bella questa attitudine di partire dal basso e la scena supporta tanto, perché sa che c’è bisogno di questo. Per carità, la scena DIY è un po’ dovunque, ma in Italia c’è un calore dovuto al fatto che chi lo fa ci mette il cuore.
Ora entriamo più nel dettaglio. Del tuo ampio curriculum, prendiamo in esame Mai Mai Mai: quale urgenza si cela dietro alla nascita di questo progetto?
È stato il desiderio di fare qualcosa di totalmente nuovo. Da una parte gli Hiroshima Rocks Around, il mio gruppo storico, sì è – diciamo – addormentato, dall’altra andavo avanti con cose super stimolanti ma sentivo la necessità di mettermi in gioco. Io sono un batterista di base, quindi ho sempre suonato con altre persone, che fossero in ensemble d’improvvisazione o in gruppi strutturati. Questa invece è stata la prima volta che mi sono messo da solo ed è stata la scommessa più difficile da vincere. Che sia riuscito – o meglio – che mi sia piaciuto quello che stava uscendo fuori mi ha reso molto contento. Ovvio, che poi piaccia anche fuori e che abbia avuto una certa risonanza mi ha reso ancora più felice, ma la mia prima soddisfazione era per come stavo riuscendo ad esprimermi: è quello che mi ha spinto ad andare avanti.
Insomma, volevi qualcosa di estremamente personale.
Esatto. Per quanto sia stupendo scrivere in gruppo, lavori sempre di mediazioni e compromessi. Essere da solo è sì onanistico da un lato, ma dall’altro hai la possibilità di esprimere quello che hai veramente da dire. Poi in realtà non si è mai da soli, perché quando un disco arriva ad essere registrato c’è tanta gente in mezzo – collaboratori, chi lo ascolta, chi dà i consigli – però l’idea di provare a fare qualcosa da solo era ciò che mi ispirava di più. Anche perché poi – come ti ho detto – il tempo non è tantissimo e mettere su un gruppo con altre persone che hanno tanti altri impegni è ancora più complicato, e ad un certo punto mi son detto: “mi butto in sala da solo”; e pian piano Mai Mai Mai si è strutturato quasi naturalmente.
Rimaniamo sul carattere personale del tuo progetto. Prendendo la press release dell’evento a cui prenderai parte stasera, essa riporta: «la serata origina da una riflessione attorno al concetto di detrito (debris), residuo dell’esistenza di un oggetto, un momento, una situazione, apparentemente disgregato e lontano dalla sua origine eppure unica possibilità rimasta di accesso, a posteriori, a quest’ultima». Non a caso, la tua musica ha origine da residui della tua infanzia, no?
Sì, del mio passato in generale. Ho creato un progetto personale anche per vedere cosa c’era dentro di me, per scavare nei meandri del mio passato sia artistico sia personale. Mai Mai Mai è una sorta di memoire, anche se il progetto è molto romanzato, teatralizzato. Ho giocato con i ricordi, con i souvenir di un ipotetico viaggio sia spaziale sia temporale, da cui ho attinto materiali sonori e soprattutto emozioni. Mai Mai Mai lo ritengo infatti un progetto molto emozionale: una colonna sonora di immagini che si possono vedere anche se non manifeste. È un po’ un ravanare nell’oscurità del passato usando suoni e registrazioni tradizionali legati alle culture mediterranee, ad una cultura nostra, ad una cultura ampia. Parlo di una realtà sovrastatale, ma mediterranea: io vengo da lì, più che dalla nuova Europa.
E all’oriente, ti avvicini mai? Ricordo che Delta è uscito su un’etichetta che concettualmente è molto legata a quell’immaginario, la Yerevan Tapes.
L’oriente a cui mi avvicino è comunque quello mediato dai vecchi confini del Mediterraneo, quindi si parla di Turchia, di Libano, Nord Africa, però difficilmente mi allontano. Quando uso musica folklorica, attingo comunque al giro del Mediterraneo, perché poi sono le sonorità che mi interessano di più. Se devo essere sincero, ora Oriente, estremo Oriente e Africa sono veramente abusate come sonorità; non che questo sia un malus: io le adoro, quindi quando ce le metti in mezzo è sempre fantastico.
La tua ultima uscita, Petra, rappresenta una piccola digressione dal trittico sull’Egeo, ancora per poco incompleto. Un’esplorazione tra rovine soniche in cui sposi una nuova prospettiva, più minerale che acquatica. Come mai ha sentito la necessità di intervallare la tua narrazione con questa parentesi?
Beh, nasce – in maniera del tutto naturale – dal fatto che quando visito un luogo di solito penso ad una pietra o ad una roccia come souvenir. Alla fine queste pietre contengono tutto il tempo del luogo di cui vuoi tener memoria ed è come se il tuo passaggio venisse cristallizzato. Ok, è un discorso un po’ fricchettone/new age, ma proverò poi a svilupparlo meglio (ride, ndr.). Di base l’idea era di mineralizzare il momento del viaggio che stavo portando avanti con la trilogia, e dato che è un lato importante del mio viaggiare, quello del portare con me memorie rocciose, è stato divertente tradurlo in musica. Oltretutto, al di là della componente sonora, ho cercato di conferire a Petra un carattere minerale anche a livello visivo, con la serigrafia di Andreco e con le foto di Ilaria, la mia ragazza.
Comunque rientra benissimo nel concetto di residuo.
Esatto, si sposa a pennello, perché l’idea di detrito proposta da Plunge è qualcosa di distrutto che sembra non avere a che fare nulla con il luogo da cui proviene, ma in realtà conserva tutta la sua energia e basta saperlo ascoltare.
Passiamo ora al momento in cui sali sul palco e indossi il tuo sacco di juta. In un’era dominata dai laptop, a me sembra che tu prediliga la fisicità nei live. Qual è il tuo iter e la strumentazione che manometti, o meglio maltratti?
Io vengo dal punk, dal rock n’roll e dalla musica suonata, quindi il fatto di stare fermo dietro ad un tavolo è stato per me un primo ostacolo. Tuttavia, per contrastare la freddezza della performance elettronica, ho trasferito la fisicità nel suono e nelle immagini, già presenti fin dal primo live con il vestito e la maschera. Ho quindi creato un conflitto tra l’immagine staticissima della persona e del tavolo con la dinamicità delle nevrotiche proiezioni alle mie spalle e del suono, potente e inglobante, sopperendo la mancanza della fisicità di percuotere la batteria e di sudare, con un’altra più emotiva. Detto questo, per quanto mi abbia stancato la figura del musicista con il computer davanti, non sono contrario al digitale e all’uso del pc, di base è uno strumento come un altro e tanto di cappello a chi lo sa usare come si deve, ma io l’ho sempre impiegato poco, se non per questioni di editaggio e produzione. Sul palco porto tutta la mia eredità artistica e il mio lavoro si focalizza prevalentemente su registrazioni di percussioni, ritmiche realizzate con dei sequencer e con delle drum machine, nastri e voce.
Se da una parte mi verrebbe da chiederti quale nome vorresti al Dal Verme, dall’altra mi incuriosisce conoscere con quale artista ti interesserebbe condividere il tuo progetto solista.
Su DalVerme non saprei, perché non pianifichiamo mai. È un posto molto piccolo e il budget è risicato, quindi difficilmente chiamiamo qualcuno appositamente, eccetto per eventi come Thalassa. Alla fine siamo un punto di riferimento per Roma, e quando qualcuno è in giro mi scrive direttamente: mi si presenta il DIY in persona e difficilmente interagisco con agenzie se non per necessità. Anche con nomi hype, come i Wolf Eyes (da noi il prossimo 4 maggio), c’è un legame: ci suoniamo insieme dal 2004 e considero degli amici Nate e John. Si lavora un po’ così con tutti e mi piace la sorpresa e ribeccare chi conosco. E lo stesso è per Mai Mai Mai. Non ho mai scritto a nessuna etichetta che non conosco per fare uscire un disco e non ho mai scritto a nessuna persona per collaborare. Per esempio, quando è uscito Theta, il mix l’ha fatto Jamie Stewart degli Xiu Xiu, ed è stato totalmente casuale perché quando ho registrato ho mandato le tracce a Federico dei Father Murphy che, conoscendo molto bene Jamie, gliele ha inoltrate e le ha potute apprezzare. Insomma, è più una cosa reale: se ti conosco, se ci siamo ubriacati una sera, allora può nascere qualcosa, se no non sono molto virtuale. Un’amicizia e una collaborazione deve essere vera. Penso a Luciano Lamanna, che conosco da 25 anni e con il quale abbiamo all’attivo un progetto in cui abbiniamo la sua techno con i miei ritmi e le mie oscurità, ma anche solo al featuring con Calcutta, molto discusso e chiacchierato. Molti han detto: “che cazzo centra Calcutta con Mai Mai Mai?” Centra che siamo cresciuti insieme, tra DalVerme, Fanfulla, bicchieri e date insieme in Calabria.
Quindi sarà il tempo a determinare le tue collaborazioni.
Sì, poi adesso uscirà a settembre il nuovo disco, che andrà appunto a sancire la trilogia sul Mediterraneo, Phi. Al suo interno c’è il contributo del bravissimo musicista avant-folk Luca Venitucci e di Lino Capra Vaccina. Con quest’ultimo la collaborazione è nata proprio durante il Thalassa dell’anno scorso. Quindi anche qui: la partecipazione di Lino all’album non è dovuta al fatto che è uno dei miei padri spirituali, ma perché siamo stati a chiacchierare al DalVerme fino alle 3 del mattino.
Oh, volevo giusto concludere chiedendoti quali fossero i piani per quest’anno, ma vedo che mi hai anticipato.
Sì, c’è Phi in arrivo, ma ho lavorato anche su nuovo materiale con Luciano Lamanna, quindi presto vedrà la luce il sequel di Lunar Lodge (non più Lunar Lodge) + Mai Mai Mai. E questo è tutto… Non so se farò altre cose con Calcutta, anche se ora è famoso (ride, ndr.).