Stavolta lo si aspettava al varco Antony Hegarty. A 16 anni dal debutto, dopo collaborazioni prestigiosissime (tra cui figura anche Franco Battiato con cui si è preso la briga addirittura di registrare un album dal vivo e di metterci la faccia in copertina) e 4 album ufficiali –concettualmente molto diversi tra loro ma che, soprattutto ultimamente, si erano adagiati definitivamente sugli allori, contando sulle doti vocali tendenti al paranormale della transgender di New York.
Gli arrangiamenti sono diventati negli anni sempre più ridondanti e orchestrali e per sentirla gorgheggiare su un tessuto di bpm più frenetico e (ben venga) anche un po’ frivolo, bisognerà accontentarsi del contributo massiccio al disco omonimo degli Hercules and Love Affair (2008).
Quella variazione sul tema è forse una delle chiavi di volta. Perché non dare seguito a un esperimento strabiliante come quello di Blind ? Perché limitarsi ad arrangiamenti pomposi e non prendere spunto invece da alcuni dei suoi idoli di gioventù come Culture Club, Marc Almond e Jimmy Somerville?
Sarà sufficiente l’apporto musicale di Oneohtrix Point Never e Hudson Mohawke a farle scrollare di dosso la solennità di un’intera discografia? Sarà in grado di adeguare il suo talento ad un progetto elettronico tutt’altro che dance oriented ?
La risposta, forse, si intitola Hopelessness, 11 brani in cui per la prima volta si presenta senza i “the Johnsons” in veste solista, sotto il moniker ANOHNI.
Hopelessness è un album piacevole ma vocalmente e melodicamente meno complesso di quanto ci si aspettava: Watch me, Why did you separate me from the earth e Execution ne sono la prova. Sulla carta, se ci si basa sui precedenti discografici dei due collaboratori principali, ci si ritrova spiazzati, quasi delusi; liricamente invece è un lavoro pretenzioso e pieno di invettive, a tratti forse troppo generiche. Il pericolo approssimazione (un po’ come per M.I.A.) è dietro l’angolo, tanto da farti venire voglia di riabilitare immediatamente Heal the World di MJ:
I know you love me
‘Cause you’re always watching me
Protecting me from evil
Protecting me from terrorism
Protecting me from child molesters
Protecting me from evil
Passino la disillusione, la presa di coscienza del fallimento politico americano (Obama), le riflessioni influenzate dal movimento ecofemminista e tutta una serie di messaggi sociali sulla salvaguardia della natura. Tutto giusto e condivisibile (compresa la sua defezione agli Oscar) ma che non basta a determinare la riuscita di un disco, né liricamente, né musicalmente.
Lei stessa ha dichiarato in più di un’intervista di sentirsi limitata dopo anni di “esplorazione delle sfaccettature della drammaticità” e di voler produrre un disco che si discostasse dall’estetica del passato, che potesse avvalersi di una veste contemporanea. Se questo era l’intento, non c’è dubbio, Hopelessness è un album cantato magistralmente, ben prodotto e che pare aver messo d’accordo tutti gli addetti del settore, molti dei quali sembrano essersi accorti solo ora dell’esistenza dell’angelo di New York.
Antony, si sa, può permettersi di cantare qualunque cosa, su qualsiasi beat, da un’ Acappella fino alla musica atonale. Oltretutto queste undici tracce avranno probabilmente una resa dal vivo eccezionale: facile immaginarsi il coinvolgimento religioso del pubblico, l’esperienza di un concerto di Antony è davvero complicata da descrivere a parole. Su questo non discutiamo.
Sulla carta rimane però una pietra miliare mancata che avrebbe potuto segnare un’epoca; manca po’ di coraggio, un tappeto musicale realmente sperimentale e impattante, a parte qualche passaggio nella title track, la svolta timbrica di Obama e Violent Men, reminiscenza della sua collaborazione con i Current 93. Avrebbe avuto bisogno complessivamente di un sound avanguardista che rendesse onore ai nomi altisonanti che hanno co-prodotto l’intero lavoro.
E forse anche un po’ di leggerezza…