“I’ll mumble ‘til the end, until I find the words”
Che fare con gli afterthoughts, come addomesticare i ripensamenti?
Abbiamo i nostri alti, abbiamo i bassi, abbiamo il sole e l’abisso. E nel mezzo? Che forma assumono i ricordi, quando tutto sbiadisce?
A valle del divano di casa, i dubbi si scoprono subito scivolosi, cosparsi di pericoloso fascino.
Lo scopo di Jamie Isaac, appoggiato a quel tappeto, è caricare di dignità i suoi rimpianti, legittimare ogni indefinita sensazione. Lungi dall’autocompassione, suona sollevato per aver sciolto il rebus più oscuro: il modo migliore per incrociare l’età adulta senza tare taglienti è raccontare a se stessi la storia più lucida. Analizzare, colorare, ripassare.
Se per il traguardo occorrono più parole del previsto, ben vengano: i ritornelli di Jamie Isaac non sono precisamente individuabili, sempre coperti da post-scriptum e parentesi.
Le confessioni del ventiduenne evitano agilmente, tuttavia, la ridondanza; ogni strumentale ascende progressivamente -si senta All My Days, il più nudo tra i brevi flussi di coscienza del disco- seguendo le traiettorie emozionali tipiche del jazz. Isaac cita infatti tra le sue influenze Dave Brubeck, Paul Desmond e Chet Baker, da cui le atmosfere fumose e il mixaggio sottilmente lo-fi.
Si definisce un producer a cui capita di cantare, e considera le sue tracce vocali uno strumento aggiuntivo, quasi finale. Di fatto, tutto è messaggio: ogni strato sonoro apre ad una serie di concomitanti stati d’animo, simili ad una sequenza di sguardi efficaci.
“They don’t know you like me”
L’insieme -strumenti e voce-strumento- rende rivelatorio persino il primo ascolto: è il riservato estro delle figure più incisive di jazz e soul, quello con cui Marvin Gaye cambiava all’istante il colore di una stanza, aumentandone il calore specifico. Agli angoli della stanza, agli estremi del divano, Herbie Hancock e Bill Evans dialogano sereni. Se tutto questo accade a South East London, il risultato spaventa per intimità e cruda eleganza. Ovunque si nota quanto le ispirazioni più immediate al lavoro di Jamie Isaac siano proprio i suoi compagni di vita: tra gli altri King Krule, Jesse James Solomon e Rejjie Snow, tutti comparsi nell’ep di remix precedente Couch Baby. Stesso sommesso talento dei suoi colleghi, stessa pacata comprensione di gioie e dolori.
Le chitarre acquose suggeriscono gli umori, per poi trovare narrazione nelle melodie di synths e pianoforte, lo strumento da cui Jamie proviene e che lo avvicina all’universo di James Blake. Il basso è decisa vernice, che con cura copre e sostiene.
Ogni hihat è una comparsa, ogni clap decora lo sfondo: seppure di matrice j-dilliana, le batterie di Isaac pullulano di minuzie moderne -è soprattutto il caso di Find the Words e Pigeon- con frequenti richiami ai paesaggi umidi di A New Place 2 Drown (King Krule, appunto).
Intro e outro si inseguono, come se tutto -cibi precotti, toni minori, luce lunare- si consumasse ai piedi di quel sofà.
Couch Baby, senza feature né forzate altalene di stili, è uno degli album più consistenti dell’anno. Ciò grazie ad un’evidenza meravigliosa: ogni istante sgorga dalla medesima, giovane mente.
I sentimenti, per sempre.