Bisogna prestarsi agli altri e darsi a se stessi
(Michel de Montaigne)
Due avvenimenti.
Il primo a 19 anni, quando fui colpita da un’onda che s’infranse sulla mia vita in maniera così forte da farle voltare pagina, sì ma non la pagina di un libello, avete presente i tomi della Utet? Ecco, qualcosa del genere. L’onda uscì dallo schermo mentre facevo la conoscenza dei personaggi femminili nei film della Nouvelle Vague. Donne vive e palpitanti, intense e intraprendenti, che non sembravano dover né tantomeno voler dare spiegazioni a nessuno. Catherine di Jules et Jim dice con un soffio “Non voglio essere capita”: quella frase divenne la cosa più vicina a un’idea, allora accarezzata, di libertà.
Il secondo evento è l’incontro con Angel Olsen attraverso un album, Burn Your Fire for no Witness, che mi ha curato come balsamo e vangelo, ispirazione e rivolta, abbraccio e schiaffo. Angel era quella donna viva e palpitante e nelle sue canzoni, come nei dialoghi dei film francesi, di spiegazioni d’intenti non ce n’era manco l’ombra. Angel passava dal folk al grunge, ai ritmi jive morbidi degli anni ’50 fino a sferzate post-rock con un’estasi mistica che aveva semplicemente del divino. La voce, nelle sue mille sfumature, angolazioni, tourbillon e oscillazioni, era la chiara manifestazione di una sincerità e un’intelligenza disarmanti.
Quel disco ora ha un successore, s’intitola My Woman. E come per magia Nouvelle Vague e Angel si scontrano. Tutto parte da Intern, il singolo pubblicato due mesi fa, una ballad irresistibile con synth spessi come melassa che sembrano usciti dal film Drive. Nel video Angel indossa una parrucca argento, guarda fissa in camera come in un vero e proprio confessionale e ammicca, seriosa o forse no, come una femme fatale. Il singolo successivo, Shut Up Kiss Me, è puro rock’n’ roll cinquantone. Nel video della canzone ritroviamo la parrucca e gli ammicchi (sublimi) di Intern, quasi come a volerci dire “credete sia davvero così? Potrei farlo se ne ho voglia, potrei davvero cambiare stile ed essere un’altra, anzi: mi diverto come una matta”. Appunto, come diceva Catherine: non voglio essere capita.
Un effetto simile si può cogliere in modo sottile in alcune performance dal vivo. Ci sono un paio di video in cui Angel appare assorta nell’interpretazione, rapita in un’altra dimensione, e poi, improvvisamente, un sorriso fa capolino, quasi a scompaginare le carte e a dire “è solo una canzone, ma sta realmente accadendo, sta prendendo forma, e ora sta diventando qualcosa d’altro: un momento, un ricordo, un legame”. C’è un senso di consapevolezza incredibile nella sua musica che va al di là della musica stessa. E’ un senso molto lucido dell’arte e dell’essere artista. Anche per questo motivo Angel ha deciso di prendere totalmente il controllo narrativo della sua arte dirigendo in prima persona i suoi video.
A differenza dei personaggi femminili che compaiono nei film di Truffaut e Godard e che si limitano ad essere rappresentati, Angel si rappresenta. Lo fa in quanto donna e perché vuole giocare con la sua immagine. Già nel 2014 Angel parlava di Agnès Varda, unica regista donna della Nouvelle Vague, come suo modello e ispirazione. Nella sua pellicola più celebre, Cléo de 5 à 7, Varda mette in scena l’evoluzione di una donna da essere civettuolo a individuo cosciente. C’è una scena in quel film in cui Cléo guarda il suo riflesso in un vetro per poi, successivamente, togliersi parrucca e abito di piume: mi piace pensare che sia stata questa la leva scattata in Angel Olsen. Quello è lo slancio, dopo la rincorsa, che le ha fatto dire: il centro del mondo sono io.
Angel Olsen, in My Woman, è fabbro del suo destino. (D’altronde lo diceva anche nel disco precedente, in quella Unfucktheworld che ha rubato il fiato a diversi di noi: “I am the only one now”; in questo album la funzione catartica spetta al verso “I dare you to understand what makes me a woman” nel brano-romanzo di formazione che è Woman). Angel reclama per sé ogni piccolo spazio di cuore, ogni centimetro vitale, ogni attimo. Ne rivendica l’appartenenza. Ogni canzone è un tableau, così come i 12 quadri che compongono il film di Godard Vivre sa vie.
Questa sono io – ora, ci dice Angel. Domani potrei essere diversa, ma ora è così. Angel appare sognante in odor di Shangri-Las in Never Be Mine e Give it Up, libera e scatenata in Shut Up Kiss Me, quasi a non darsi pace per una relazione che sta per finire: perché Angel, non dimentichiamolo mai, è ancora giovane ed è pronta ad amare ed amarsi, di nuovo, ancora. A parlare è un cuore puro che si rifiuta di guastarsi: un organo vivo, pieno di ossigeno, che vuole cambiare battito.
E come il suo cuore, anche il disco cambia ritmo. Superata una prima parte energica di puro istinto e desiderio, la seconda è un fluire viscerale con brani come Woman, Those Were the Days e Sister. Eccola, di nuovo, la consapevolezza, la percezione, il coraggio. Così parla Angel in un’intervista:
In my early 20s, I thought that one day I’d have it all figured out: my life, my career. I’ll have an apartment or a house, maybe I’ll have a family or maybe I won’t, but I’m going to have answers eventually. I do have some answers, but I find more joy in not needing them. Curiosity can be a source of fulfillment. It can be a freedom. (via)
E’ una libertà selvaggia e lucida, quella di Angel. La libertà di ammettere che sì, forse le cose sarebbero potute diventare altro (All my life I thought I’d change, ripete a mo’ di mantra in Sister, esperienza sciamanica, Sister), ma se non è successo è perché siamo noi a essere diventati altro. Succede sempre, è qualcosa a cui non possiamo sfuggire. Anche in questo momento, anche quando parliamo: non facciamo altro che diventare qualcosa che prima non eravamo. Le parole, i nostri discorsi, le lettere che digitiamo appaiono come un nastro che lentamente si sbobina e che non necessariamente riusciamo a capire. In un’altra intervista Angel dice qualcosa di simile: The thing about getting older is that instead of deciding that you’ve figured it out, you get better at realizing you never will.
Con l’età impariamo a non chiederci più il perché delle cose e possiamo anche permetterci di sospendere giudizi. La vita accade, noi la attraversiamo, ci prepariamo meglio ai cambiamenti, siamo permeati dalle emozioni ma non ne siamo completamente intrisi. Tendiamo a perdere meno pezzi, meno gocce, ad apparire meno sfibrati. Forse perché, come scriveva Montaigne, stiamo imparando a prestarci agli altri (come il libro di una biblioteca, con scadenze, depositi e luoghi d’origine) a patto di tornare integri, senza sottolineature o pagine strappate; ma soprattutto abbiamo imparato a darci a noi stessi. E ci sentiamo vivi. Ecco cosa canta – e soprattutto cosa è oggi – Angel Olsen.
Live out your life
I’ll never tell you you’re wrong.
(Pops)