Esce questa settimana, a tre anni di distanza dal precedente Lost, il nuovo album di Anders Trentemøller. A differenza di quel fortunato disco -al quale hanno preso parte tra gli altri i leggendari Low, Kazu Makino dei Blonde Redhead e Sune Wagner dei The Raveonettes- questo “Fixion” vede la sola partecipazione in veste di vocalists della vecchia conoscenza Marie Fisker -collaboratrice abituale del produttore danese- e di Jehnny Beth del quartetto britannico delle Savages. Con Anders abbiamo avuto il piacere di fare una lunga chiacchierata nella quale -con il suo consueto entusiasmo e la simpatia e l’espansività che lo contraddistinguono a dispetto di un sound a tratti molto cupo ed umorale- ci ha raccontato della propria evoluzione artistica, della sua collaborazione con Jehnny Beth e di quella volta che i legali di Bruce Springsteen gli hanno fatto passare un brutto quarto d’ora.
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Anni fa, durante la promozione del tuo primo album The Last Resort, ho avuto la possibilità di intervistarti per una stazione radio. Mi ricordo che in quell’occasione mi raccontasti di essere in tour con un dj al seguito, perché -come mi spiegasti- i brani di quell’album, quelli che stavi presentando in quel periodo con un set live, erano troppo profondi e scuri per il pubblico dei festivals e dei clubs. Così quel dj ti seguiva per suonare musica per far ballare. Questo mi ha fatto pensare alla tua evoluzione musicale. Da un suono più elettronico e basato sui beats sei arrivato a qualcosa di decisamente più orientato verso la forma-canzone. Nel corso di questi anni sei diventato un vero e proprio songwriter, porti la tua musica sul palco con una vera e propria band che include anche una vocalist. So che hai un background in bands rock ma nonostante questo, la tua evoluzione è peculiare e decisamente interessante.
Per me è stato uno sviluppo avvenuto anno dopo anno, lento e del tutto naturale. Non è stato qualcosa che ho pianificato. Il modo in cui compongo musica cambia, perché penso che il cambiamento artistico sia un processo inevitabile. Così come di decennio in decennio una persona non resta la stessa, o almeno lo spero. Tuttavia posso capire che dall’esterno, il passaggio dall’elettronica a ciò che produco adesso, possa sembrare un cambiamento drastico. Resta comunque musica che ha molti elementi elettronici -nel nuovo album uso ancora synths e drum machines- ma è anche più melodica. Non è musica elettronica da club tradizionalmente intesa, ma è frutto di una mia visione estetica ed è ciò che mi riesce naturale fare in questo momento, anche perché non ho mai voluto produrre lo stesso tipo di album due volte.
Penso che i collaboratori che nel corso anni sono apparsi nei tuoi dischi, ed in particolare i vocalists, hanno giocato un ruolo importante in questa tua evoluzione musicale. Un processo che mi sembra sia iniziato con la versione vocale di Moan, un brano strumentale incluso nel tuo promo album, e grazie a quella versione diventato anche un successo da dancefloor ai tempi della sua pubblicazione. Che ne pensi?
Anche queste collaborazioni non sono pianificate primi di iniziare a lavorare ad un album. Non parto con l’idea “Sarebbe bello avere i Low nel disco, o il cantante dei The Drums”. Sono le canzoni stesse che, una volta composte, richiedono un certo tipo di cantante. Dipende dalla natura della canzone stessa. A volte questo sorprende perfino me stesso. Per esempio, nell’album Lost c’erano cinque o sei cantanti diversi, la mia impressione era che le canzoni fossero abbastanza diverse tra di loro e che, per questo, avessero bisogno di cantanti diversi tra di loro. Se paragoni quel disco con questo nuovo, ti accorgi subito che a cantare ci sono solo Marie Fisker e Jehnny Beth, questo perché stavolta ho cercato di portare l’ascoltatore a pensare che ci fosse una sola voce a prenderlo per mano ed a guidarlo per tutta la durata dell’album. Non ho voluto ripetere ciò che avevo già fatto, ospitando cosi tanti vocalists in un solo disco. In questo nuovo la musica scorre più naturalmente, e dal momento che Marie canta in quattro canzoni, è più facile per l’ascoltatore identificarcisi.
Dal momento che l’hai appena menzionata, vorrei chiederti di raccontarci come hai incontrato Jehnny Beth e come avete iniziato a lavorare assieme?
È stato divertente. Suonavamo entrambi ad un festival francese ed io e la mia band avevamo appena finito il nostro concerto -le Savages avevano suonato lì il giorno prima- così mentre giravamo per il backstage ci siamo messi a chiacchierare con Jehnny Beth e Johnny Hostile, il produttore della band. Già allora ero un grande fan del loro album d`esordio e così, visto che anche loro si erano dichiarati fans della mia musica, siamo finiti a parlare di una possibile collaborazione. Dopodiché mi sono un po’ dimenticato il tutto, ma a distanza di alcuni mesi mi sono ritrovato a riparlare con Johnny Hostile e -visto che anche lui ha un progetto musicale per conto suo molto figo- in quell’occasione gli ho chiesto di seguirmi in tour. Si è cosi entusiasmato che ha invitato Jehnny Beth a venire a vedere qualcuno dei nostri shows finché, durante un nostro concerto a Roma, anche lei si è unita alla band sul palco per cantare. Dopo quella apparizione le Savages mi hanno chiesto di mixare il loro secondo album. Mi è molto piaciuto farlo, mi è piaciuta la sensazione di fare un passo indietro dalla mia musica e di avere la possibilità di fare del mio meglio lavorando alla musica d’altri. Inoltre, dal momento che ero un grande fan della band, è stata anche una specie di sfida anche perché trattandosi di una band rock che suona strumenti dal vivo, in tempo reale, si discostava da quanto avevo fatto fino a quel momento in campo elettronico. Nonostante questo è stato molto facile lavorarci sù, perché le nostre preferenze ed i nostri gusti musicali coincidono. Durante queste sessions di mixaggio abbiamo anche parlato della possibilità di avere la partecipazione di Jehnny Beth al mio prossimo album. Appena sono ritornato a Copenhagen ed ho iniziato a lavorarci su, ho composto in un giorno un groove con basso, drums e tastiere che mi ha fatto subito pensare si potesse adattare bene alla sua voce. Lei ci si è subito entusiasmata e mi ha raggiunto in studio per due giorni. Giornate veramente intense perché in così poco tempo dovevamo comporre e registrare le canzoni con la sua partecipazione, ma grazie a questo il tutto ha acquistato un energia ancora più intensa e drammatica, e spero che sia anche quello che l’ascoltatore può avvertire ascoltando il disco.
Nonostante questo tipo di energia, anche il nuovo disco -come i tuoi precedenti- include tracce più atmosferiche, cinematiche. So che la tua musica è stata inclusa in colonne sonore in passato ma non mi risulta che tu abbia composto musica appositamente per quello scopo, vero?
Infatti. O meglio, fatta eccezione per un film danese, otto o nove anni fa. Non è qualcosa che voglio veramente fare però, dal momento che ho scoperto quanto lavoro c’è dietro alla scrittura di musica per soundtrack, il dover lavorare con un sacco di persone di verse, dal regista all’editor al produttore… tuttavia è molto gratificante quando un regista decide di usare la mia musica. Tre anni fa mi è stato chiesto di comporre la musica per la sigla della serie Halt and Catch Fire, prodotta da HBO. In quel caso la sfida era nel cercare di comporre e produrre trenta secondi di musica che si adattassero alla parte visuale e che dessero subito l’idea del genere di atmosfera che la serie aveva in sé. È stato divertente farlo, ma chiaramente era un lavoro di scala molto ridotta rispetto a quella di un film di durata vera e propria.
E sempre in tema di colonne sonore, c’è il remix di un brano di Bruce Springsteen da te prodotto in maniera non ufficiale e poi usato da un regista per un suo film, non è vero?
Quello è stato veramente strano. L’avevo realizzato per uso personale e per regalarlo a gente che conoscevo qui a Copenhagen, ed improvvisamente è stato reso pubblico su Youtube. La sua pubblicazione non era mai stata presa in considerazione. L’avevo prodotto per le serate in cui mi esibivo come dj e anche perché volevo rendere omaggio all’album Nebraska -un disco fantastico che molta gente purtroppo non conosce, dal momento che i più quando pensano a Bruce Springsteen pensano solo a Born In The U.S.A.- e tutto ad un tratto vengo contattato dai suoi avvocati che mi chiedono se fossi io l’autore di quel remix. A quel punto mi sono veramente cominciato a preoccupare, ma successivamente gli stessi avvocati hanno chiarito i motivi della loro richiesta, comunicandomi che un regista francese voleva usare proprio quel remix (Jacques Audiard per il suo film Rust and Bones ndr.) e che la sua casa di produzione li aveva contattati per quel motivo. È stata la prima volta che Springsteen ha detto sì al remix di un suo brano. È stata una gran cosa per me, mi sono sentito onorato ed orgoglioso -anche se è un brano che non è stato mai pubblicato ufficialmente- ma anche perché sulle prime ero convinto che finissero con il farmi causa.
E poi ancora, mi ricordo il tuo remix di Wicked Game
Sì! Quello è di circa dodici anni fa… È andata un po’ alla stessa maniera, l ho fatto solo per divertimento, perché amo veramente tanto quella canzone di Chris Isaak. In quel caso è stata forse la prima volta che ho provato a produrre un remix, ma come nel caso di quello di Bruce Springsteen non avevo a disposizione gli stems, le singole tracce originali. Ho filtrato via il basso dall’originale aggiungendo le mie basslines e le percussioni ed altre parti. Si possono fare un sacco di cose scegliendo la canzone giusta con cui lavorare. Ma ad essere onesto, ho deciso di non produrre più remixes per altri. Penso che rubino troppo tempo alla creazione della mia musica. Ho bisogno di più tempo per produrre remixes che le mie cose e non mi sembra che sia il modo giusta di lavorare. Fra qualche anno forse ricomincerò ma per il momento mi voglio completamente concentrare sulla mia musica.
A proposito, ci potresti raccontare qualcosa a proposito della tua etichetta, In My Room?
In pratica si tratta di una piattaforma per le mie produzioni, perché non voglio essere legato ad una label dove c`è della gente che mi dice quello che devo fare. Voglio mantenere la mia libertà artistica, ed inoltre sarebbe bello poter pubblicare la musica di artisti che trovo interessanti anche se, a dire la verità, in questi anni sono stato troppo occupato a realizzare i miei dischi per poter trovare il tempo da dedicare ad altri, come era inizialmente nei mie piani. L’ultima release comunque risale a qualche mese fa ed è di un produttore chiamato Tom And His Computer. È un mio amico di vecchia data e fa un elettronica scura che fa pensare ad un David Lynch sotto effetto di acido, e qualcosa del genere
Ci puoi raccontare qualcosa a proposito della band che ti accompagna in tour e come porterai sul palco la musica di questo tuo nuovo album?
Questa è sempre una grande sfida. Quando compongo e produco la musica per i miei album sono da solo in studio e suono quasi tutti gli strumenti. Il cercare di tradurre la mia visione musicale al resto della band è una cosa impegnativa. Comunque, avendo io stesso un background di quel genere mi facilita il compito di insegnare agli altri musicisti le varie parti, e la cosa bella è che poco alla volta loro stessi tornano da me per darmi il loro parere, aggiungere le proprie idee, iniziano a suonare le loro parti in maniera più personale fino a che non si tratta più solo delle mie composizioni, la band non è più solo un gruppo di accompagnamento. Facciamo musica assieme e la fiducia è reciproca. Inoltre, anche se ci sono molte parti elettroniche, la musica è suonata dal vivo e non completamente quantizzata. Il fattore umano è sempre presente. Marie Fisker è la vocalist ed interpreta tutte le canzoni come se fossero proprie. Non voglio che cerchi di copiare quello che i cantanti ospiti nei miei vari album hanno fatto. Voglio che Marie si senta a casa cantando quelle canzoni. Quando suoniamo dal vivo e lei canta mi viene la pelle d’oca, è veramente grande!
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