Nan Kolè è un uomo brillante. Lo si deduce traducendo il suo nome dalla lingua Kpelle. In realtà è nato a Roma, dove ha cominciato a fare il dj diventando, ad un certo punto, resident di “Afrodisia l’Afrique a Rome” ma è stato a Durban che ha trovato la propria vera casa artistica.
Lì ha scoperto il GQOM (si pronuncia GOM, garantisce lui), una scena musicale che dai sobborghi e dalle periferie del Sudafrica si sta facendo largo nei club e nei festival di mezzo mondo. Gran parte del merito di questa improvvisa e massiccia diffusione è da ascrivere proprio all’etichetta fondata da Nan Kolè, la GQOM OH! Prima una compilation rilasciata nel gennaio 2016 come doppio Lp, “The Sound of Durban”, supportata in maniera incondizionata da luminari della scienza bass come Kode9, poi un mixtape firmato in collaborazione con Crudo Volta e, nel mezzo, una valanga di mix per Solid Steel, NTS, Rinse Fm, Boiler Room, etc. hanno consacrato l’etichetta come una delle novità più eclatanti dell’attuale panorama elettronico internazionale. L’artista romano descrive questo stile come “musica di rivolta e apocalittica”, a riflettere la storia tesa del Sudafrica e a fungere da crocevia tra UK funky, kwaito, hip hop, e modelli ritmici africani tradizionali.
Se ne sono occupate tutte le più importanti testate internazionali: dal The Guardian a Hyponik, da The Wire a Insert, di volta in volta parlando del “più grande documento sul genere fruibile dal pubblico occidentale” (Pitchfork), “musica concettuale per il corpo” (Fact Magazine) o “straordinario suono apocalittico” (The Fader).
Per far fronte alla massiccia richiesta di date in giro per il mondo, ma anche per seguire meglio le attività dell’etichetta, Nan Kolè si è trasferito a Londra e da lì coordina l’invasione planetaria di bassi profondi, casse selvagge e kicks esplosivi.
Abbiamo approfittato delle sue vacanze romane e, in previsione del suo prossimo dj set ad inaugurare la nuova stagione del nostro amato Kode_1, sabato 24 settembre, lo abbiamo inchiodato per quaranta minuti al telefono. Ecco cosa ne è venuto fuori.
Ci racconti gli inizi della tua carriera, quando ancora ti chiamavi Cukiman?
Il mio è un percorso molto lungo e articolato. Ho cominciato da ragazzino, nella scena Hip Hop romana, per poi migrare verso le sonorità techno e i rave illegali, nei quali suonavo con un Sound System che avevo costruito con alcuni amici tra la fine degli anni 90 e primi anni del 2000. Il cambiamento vero è arrivato attorno al 2003, quando frequentai un corso per dj con Andrea Lai e Riccardo Petitti che mi insegnò un approccio completamente differente al djing.
Riccardo Petitti è stato una pietra miliare del clubbing italiano. Tanta gente lo ricorda come un dj dotato di una straordinaria tecnica e di una conoscenza enciclopedica. Quanto ha influito sulla tua visione musicale?
Riccardo è stato fondamentale per me e per tante altre persone. Una delle cose fondamentali che mi ha insegnato è stato proprio l’approccio alla ricerca musicale come parte fondamentale e imprescindibile del lavoro del dj. Posso dire di aver costruito il mio progetto discografico avendo sempre lui come riferimento. Ho lanciato la Gqom Oh! poco dopo la sua scomparsa e ogni volta che c’è stata da prendere una decisione importante io mi chiedo: “Cosa avrebbe fatto Riccardo? Cosa avrebbe criticato?”. Lo stesso nome Cukiman che usavo allora era nato da un progetto condiviso proprio con Riccardo e Dj Pier: Viral, una serata dubstep che abbiamo portato avanti per quattro stagioni.
Sono legati ad Afrodisia e alla tua frequentazione con Mauro Zanda i primi approcci con la musica africana?
Nelle serate Viral avevo cominciato a suonare anche UK Funky. Alle mie orecchie era il suono dubstep di South London che incontrava quello delle nuove generazioni West African, soprattutto Ghana e Nigeria. L’avvicinamento agli eventi Afrodisia è stato naturale anche perché avevo già fondato un progetto denominato PepeSoup, sfociato in un’etichetta, Soupu Music, con la quale ho cominciato a far uscire produttori sudafricani conosciuti esclusivamente attraverso il web. È stato proprio nello scambio di mail e chat con loro che sono arrivato a conoscere il Gqom. Fondamentale è stato l’aiuto da “mediatore culturale” che mi ha dato Lerato Phiri, una ragazza di Soweto che viveva a Roma e che è stato il ponte ideale con i ragazzi di Durban, dato che loro non capivano come e perché un dj romano potesse essere interessato a una musica che per loro era solo un fenomeno locale, una cosa prodotta esclusivamente per gli amici delle township. Agli inizi mi chiedevano: “Cosa ti piace della nostra musica? Lo sai come si balla questo pezzo?”.
Eh già. Perché spesso i produttori africani associano dei ritmi a delle danze specifiche…
Esatto. In modo particolare il Gqom è associato ad un tipo di ballo denominato bhenga, che potrebbe ricordare una sorta di footwork rallentato con molti movimenti di piedi e di gambe. Anche se loro ignoravano completamente le scene musicali europee, io sentivo forti similitudini tra quello che stavano producendo a Durban e certo grime dalle periferie inglesi.
Possiamo immaginare che quando sei stato a trovarli fisicamente, la prima volta, a parte lo scambio artistico sia stato forte soprattutto l’impatto emozionale, umano.
Assolutamente! Ho incontrato ragazzi che mediamente avevano 14 o 15 anni. Il più grande di loro ne aveva 20. Questo ha reso necessario andare con Lerato a parlare con i genitori, per spiegare loro il nostro progetto artistico. L’accoglienza che ci hanno riservato è stata, semplicemente, incredibile. Da allora mi chiamano Malumz che tradotto vuol dire zio. Ma la cosa più sconvolgente di tutte è stata comprendere la purezza del loro approccio creativo alla musica che si traduceva in una facilità e naturalezza straordinarie nel produrre cose egregie, senza avere nessun tipo di aspettativa; senza sovrastrutture. Producevano musica semplicemente per farla ballare ai loro amici, per farla sentire sul telefonino, la mattina, ai compagni di scuola. Il massimo dell’aspirazione era che i loro pezzi venissero suonati dai tassisti di Durban.
L’approccio tecnico alla produzione corrispondeva a questo spirito naïf?
Questo è un altro aspetto che, in quanto dj e produttore, mi ha insegnato tantissimo. Nel mio contesto ero stato abituato ad esser circondato da tastiere, synth modulari e una valanga di plug-in. A loro bastavano Fruityloops e dei vecchissimi computer che avevano bisogno di essere riavviati ogni cinque minuti.
Questa cosa mi ricorda molto da vicino quello che succedeva, nei primi 2000 a Croydon, a quei produttori che poi si sarebbero chiamati Benga e Skream. O quello che da qualche anno succede a Chicago con il footwork: un piatto, un campionatore, un software basilare e tanti spliff.
Esattamente. Anche loro avevano cominciato con lo stesso software basilare e usando principalmente l’emisfero destro del cervello, quello dell’intuito. Allo stesso modo ho visto produrre ottimi pezzi gqom, finiti, in venti minuti. Mi affascina molto questa idea dell’arte intuitiva, diretta, senza sovrastrutture.
Sarà stato proprio questo a colpire così tanti giornalisti e produttori: in un momento storico nel quale abbiamo bisogno di intellettualizzare ogni aspetto della musica, trovare ancora qualcosa di autentico, non mediato, ruvido e senza compromessi perché arriva dalla periferia dell’impero e spinge dal basso.
I grandi della musica come Kode9 e Mumdance sono stati colpiti proprio da questo. Hanno colto al volo l’essenza dell’approccio dei producer che sono finiti nella nostra prima compilation. La stessa parola che descrive il genere, gqom, è onomatopeica e verace. Descrive il suono che fa il kick, spinto al massimo del volume, sullo speaker. Completamente dimenticati dal punto di vista socio-culturale hanno così tanta voglia di farsi sentire che, fosse per loro, le sfonderebbero quelle casse. In questo la loro cornice è molti simile a quella del grime e del dubstep, un suono che viene dal basso e rivendica la potenza di una voce negata.
Proprio Kode9 è stato uno dei più decisi sostenitori del vostro progetto, sin dagli inizi. Come è avvenuto il contatto con lui?
Lui è un artista avanti anni luce. Suonava tracce gqom già prima che nascesse la mia etichetta. Le aveva conosciute attraverso Okzharp e altri artisti del giro Hyperdub. Gli ho semplicemente scritto via Twitter e sono rimasto assai colpito dal fatto che mi abbia risposto subito e dimostrando molto interesse. Quello che a lui è piaciuto è soprattutto lo sforzo di valorizzazione che abbiamo fatto su quelle produzioni, rimasterizzando tutti i brani, stampandoli in maniera accurata su vinile, corredati da booklet documentati e ricchi di crediti di modo da far conoscere il contesto culturale dal quale quei suoni emergevano.
La prima compilation ’The Sound Of Durban’ è stato un successo incredibile. Come l’avete costruita?
Le prime due uscite dell’etichetta erano già pianificate e pronte. Ho deciso di farle precedere dall’uscita di un bootleg in vinile, edizione limitatissima, per il remix gqom di Adele che ha funzionato da numero zero e ci ha permesso di ottenere subito molta attenzione. Anche su consiglio dell’agenzia che ci seguiva la promozione, Echo Empire, abbiamo lavorato ad una campagna di quattro mesi, alla fine della quale la compilation è uscita in cinquecento copie in vinile ed è andata esaurita in meno di venti giorni. Abbiamo scelto bene i tempi ma fondamentale è stato l’appoggio dei grandi nomi inglesi come della stampa. Le uscite di The Guardian e The Wire, la classifica di Fact Magazine che ci ha inseriti tra le migliori cose del 2015 quando ancora non eravamo neanche usciti hanno fatto molto per creare l’hype. Ora qualcuno preme per ristampare la raccolta in un’edizione ‘golden’ ma ci stiamo ancora pensando.
Il passo successivo è stato il documentario ‘Woza Taxi’ e il mixtape di Crudo Volta che fungeva da colonna sonora. Come ci siete arrivati?
I ragazzi di Crudo Volta hanno saputo che stavo per andare a Durban per firmare i contratti con i produttori locali, prendere i file e lavorare con loro sul posto e mi hanno proposto di seguire il viaggio con una piccola troupe, lavorando sul format video del taxi che avevano sperimentato già in Marocco. I taxi sono una realtà molto importante e presente a Durban, significativa per comprendere quella realtà e quindi l’idea m’è parsa subito interessante. Abbiamo girato una settimana e nello stesso arco di tempo Tommaso Cassinis ha scattato molte foto. Diversi di questi scatti sono così belli che abbiamo pensato di farci un libro, di prossima pubblicazione.
Il tuo trasferimento a Londra come si inquadra in questa vicenda?
A Roma le avevo provate tutte, cambiando nomi, progetti e contesti. La chiusura del Rialto è stata una piccola goccia che ha fatto traboccare il vaso. Molti amici mi avevano consigliato di andare a Londra per seguire meglio le mie cose, soprattutto dopo la prima campagna di Gqom Oh! E io, a trentacinque anni, mi sono detto: “O lo faccio ora o non lo faccio più”. Ho deciso a settembre 2015 di trasferirmi e, anche grazie all’aiuto del mio managment, a dicembre avevo già casa e studio pronti. Immediatamente ho sentito una fortissima energia attorno a me e all’etichetta e ho deciso di cavalcarla senza paranoie.
Lì, tra le altre cose, sei venuto a contatto con degli altri ‘emigranti’ italiani del suono bass. Mi riferisco a Wallwork e il resto di Nervous Horizon. Come è avvenuto l’incontro?
Due giorni dopo il mio arrivo a Londra il mio manager mi ha portato nello studio di Wallwork e TSVI. Il loro talento mi ha colpito molto e mi sono subito sentito in famiglia. Il tempo di far sentire loro un paio di beat che avevo improvvisato e abbiamo deciso di lavorare insieme. La prima uscita è stata quella con Wallwork e Nico Linsday, che avevo conosciuto in occasione di una trasmissione per Rinse Fm, ma stiamo pensando qualcosa anche con TSVI e stimo molto anche Luru.
Tottenham è il quartiere nel quale sei andato a vivere. A giudicare dal brano in free download che hai caricato di recente sulla tua pagina Soundcloud pare che ti abbia colpito tanto da pensare di dedicargli il prossimo EP.
Appena arrivato mi sono ambientato subito. È un’area di Londra molto viva, animata da grandi comunità giamaicane e africane. Giro per strada e dalle autoradio sento arrivare 2step e garage; il sabato e la domenica ascolto un sacco di dancehall venire fuori dalle finestre. Come faccio a non sentirmi a casa? ‘West green riddim’ l’ho fatta subito, poche ore dopo che ero entrato in casa. L’idea era quella di annunciare, con quella traccia, un EP intitolato ‘Tropical Tottenham’ ma ultimamente ho ricevuto molte proposte da importanti etichette e forse dovrò smembrare quella raccolta per farne diverse uscite.
Siamo autorizzati a leggere tra le righe di quello che dici quale possano essere le etichette?
Certo, potete farlo. Ma siamo in trattativa e quindi non possiamo fare i nomi.
Quali, secondo te, sono gli artisti dal potenziale maggiore tra quelli che avete lanciato con l’etichetta?
Credo che il potenziale sia di tutti. Anzi: ci sono molti altri artisti che animano la scena di Durban e che non sono finiti nella nostra raccolta. La vera differenza la faranno i giornalisti europei, con la loro attenzione nei confronti di uno piuttosto che di un altro. Ultimamente stiamo ricevendo ottimi feedback per Mafia Boyz, Dominowe e TLC Fam. Sicuramente faremo un’uscita importante con Dominowe, anche in preparazione delle sue prima date europee e lui e Mafia Boyz stanno lavorando bene anche in Sudafrica, grazie a dei progetti che abbiamo fatto lì con Red Bull Music Academy. Da quelle parti hanno prima considerato il gqom un genere reietto, e ora, dopo il lavoro che abbiamo fatto in Europa, hanno capito quanto sia interessante. A dicembre tornerò a Durban perché abbiamo, finalmente, in previsione degli eventi importanti in città.
Ti sentiremo presto al Kode_1 di Putignano. Cosa dobbiamo aspettarci dal tuo set?
Nell’ultimo periodo, oltre alle nostre produzioni, sto suonando un bel po’ di sgubhu, altro sottogenere sud africano che ha una leggera cassa in quarti che lo avvicina all’house e quindi si presta bene al dancefloor. In comune con il gqom ha le atmosfere cupe ma con quelle tangenze alla afro-house che lo rendono più ‘facile’.
Alla stregua del figlio prodigo che torna a girare in tour per il suo paese stai suonando in Italia e la data dello showcase annunciata a Club To Club sta facendo molto parlare di voi. Che impressione hai sulla scena musicale italiana?
Più giro a conoscere le realtà italiane e più mi rendo conto di una cosa: i produttori nostrani hanno un potenziale incredibile ma attorno a loro c’è, praticamente, il nulla. Ci sono i talenti ma non c’è l’industria musicale che c’è, per esempio, in Inghilterra. Non riesco a capire perché. Però mi consolo con realtà che ci credono davvero. Sto pensando, per esempio, ad Ortigia Sound System o al Mukanda Festival che tu hai visitato quest’anno. Anche grazie al lavoro di Raffaele Costantino sta dimostrando che si può fare molto anche partendo da piccole realtà. Bisogna dare fiducia a chi decide di restare. Anzi: bisogna dargliene di più.
Intervista di Andrea Mi.