Il percorso artistico di Bon Iver è sicuramente uno dei più curiosi e imprevedibili a i quali abbiamo assistito nel corso degli ultimi anni. Da un disco intimo, sofferto e nella sostanza folk come “For Emma, Forever Ago” –e la cui genesi, avvenuta all’interno di una isolata capanna di legno nel Wisconsin, è ormai entrata nella leggenda diventando perfino tema di gags– a delle collaborazioni prestigiose e per certi versi sorprendenti come quelle con James Blake e Kanye West, il passaggio non è sicuramente lineare e breve. D’altra parte, è anche facile immaginare come un artista dal talento fuori dall’ordinario come quello di Justin Vernon senta la necessità di progredire e reinventarsi. “Bon Iver, Bon Iver”, il passo successivo a quell’ inaspettato e fortunato esordio, era sembrato del tutto consequenziale e logico. Il template acustico grazie al quale Vernon aveva trovato modo di esprimersi fino a quel momento veniva espanso ed arricchito, le possibilità offerte dalla formula classica del singer-songwriter -all’italiana traduciamolo per comodità in “cantautore”- venivano spinte fino a toccarne i limiti consentiti, ma senza davvero oltrepassarli. Questo nuovo “22, A Million” dà invece l’impressione di essere un deliberato, liberatorio, salto nel vuoto.
Non che questa smania di cambiamento, di stravolgere le convenzioni sia del tutto inedita. Ascoltando questo disco chi scrive non può fare a meno di continuare a pensare –facendo le dovute distinzioni– a quell’opera di drastica rottura con il passato che era stato l’album “Kid A” dei Radiohead. Un altro disco che ai suoi tempi aveva obbligato i fans a scegliere da quale parte stare. E se sarete tra coloro che ascolteranno brani come 10 d E A T h b R E a s T ?? e 715 – CR∑∑KS grattandosi confusi la testa, controllando il player o l’impianto stereo per essere sicuri che non ci sia qualcosa che non va, beh vi consiglio di pensare ai Radiohead e dare tutta la colpa a loro.
Un altro fattore che ha probabilmente alimentato in Vernon la smania di sovvertimento della formule è l’ubiquità che le già citate collaborazioni gli hanno donato. Nel 2016, il mainstream è una buona piattaforma sulla quale adagiarsi se non si dimentica l’importanza delle radici underground e le inossidabili credenziali che questa può assicurare. Ed è in questo contesto che “22, A Million” dà l’impressione di essere stato prodotto. Perché, una cosa è realizzare un disco come questo per una piccola nicchia di “ben informati” ed appassionati avventurosi, decisamente tutta un’altra è pubblicare lo stesso lavoro con una macchina promozionale muscolosissima alle spalle che lo impone all’attenzione del pubblico con la stessa forza delle uscite più importanti dell’intera annata discografica.
Perché, come si diceva, le nuove canzoni di Bon Iver sono ormai molto lontane da quelle con le quali il pubblico ha iniziato ad amarlo. E non perché la sostanza sia cambiata poi di tanto. Dietro al già tanto discusso vestito sintetico e destrutturato che ha voluto creare per questa occasione ci sono sempre il suo falsetto emotivo e le sue delicate composizioni, ma l’impressione che si ha è che questa volta Vernon abbia voluto soffocare il pathos, cercare finalmente la distanza che fino ad ora solo i suoi testi, spesso definiti “obliqui”, gli avevano in qualche maniera garantito. Se questo era il suo intento, ci spiace per lui, ma ci è riuscito solo in parte. Alcune delle sue canzoni più belle e toccanti di sempre sono contenute proprio in questo suo nuovo lavoro: 22 (OVER SooN) con il suo riuscitissimo intreccio di samples -tra questi la voce di Mahalia Jackson-, 33 “GOD” – con il sospetto che sorge spontaneo che questa sia stata dedicata, almeno nel titolo, al suo buon amico Kanye -, 29 #Strafford APTS, e sopra tutte la meravigliosa 8 (circle), il vero ponte ideale tra l’ampio respiro di “Bon Iver, Bon Iver” e questa sua nuova fase musicale.
A prescindere dall’uso degli artifici della tecnica, Auto Tune o chissà quale altra strana diavoleria, per distorcere ed alterare la propria voce –non proprio una novità visto l’ampio uso che Vernon ormai ne fa da anni, e al fatto che lo si trovi apprezzabile o meno– quello che più ben impressiona di queste nuove canzoni è proprio il tessuto di samples vocali che servono a sottolineare, a volte in maniera subliminale, certi passaggi. Proprio come farebbe un produttore hip hop, con la sua cura maniacale nella scelta dei campioni giusti. Ed è proprio qui che sta la bellezza e la forza di “22, A Million”. Nella maniera in cui il suo autore usa le tecniche più disparate e le spinge “al limite” per dare nuova vita a qualcosa che rischierebbe di risultare trito e ritrito, per continuare a rendere vibrante una forma d’arte che nella ripetizione dei suoi cliché rischia di perdere di rilevanza e di incisività. E proprio nel tentativo di spersonalizzazione e di mascheramento della propria emozionalità, Bon Iver crea ancora una volta momenti genuinamente e profondamente commoventi. Lo stesso Vernon sottolinea questo momento di passaggio, quando in 8 (circle) canta “I’m Standing in the street now, and I carry his guitar.”
when music sounds exactly like you needed it to #boniver #michelbergermusic
A video posted by Simone Rubi (@prismvision) on
E pensare che tutto era cominciato in una capanna in mezzo ai boschi del Wisconsin, con un cuore a pezzi da curare e proprio quella chitarra come unico rimedio.
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