È bastato un lustro ai Giuda per conquistarsi una schiera di fedelissimi fan e la meritata attenzione della stampa specializzata di tutto il mondo. Un grandissimo risultato quello del gruppo romano, nato dichiaratamente all’insegna di un revival del glam rock di metà anni Settanta (Slade, Sweet e tutto il movimento del cosiddetto pub rock o bovver rock) e giunto l’anno scorso al terzo album Speaks Evil, in un percorso musicale diventato col tempo sempre più ampio, crudo e personale. Ciò che è rimasto intatto, sin dai tempi dell’esperienza precedente coi Taxi, è l’energia dei live: impatto travolgente e una presenza scenica studiata sin nei minimi dettagli ma mai artefatta. Impossibile star fermi.
Dopo i sold-out oltremanica e tantissime date negli Stati Uniti – a Boston andò a vederli anche James Pallotta, presidente dell’AS Roma, squadra di cui la band è tifosissima – stasera – 22 ottobre – i Giuda tornano ad esibirsi davanti al pubblico di casa, al Monk. Insieme a loro, gli Holiday Inn, i promettenti Human Race e il dj-set dei ragazzi di Teenadelic Records, etichetta capitolina tutta devota al garage rock e al power-pop di cui vi parleremo prossimamente.
Proprio insieme a Flavio e Alex di Teenadelic, qualche giorno fa ci siamo recati nel quartiere di Tor Pignattara a casa di Lorenzo Moretti, chitarrista e principale songwriter della band, per una lunga chiacchierata insieme a lui e al frontman Ntendarere Tenda Damas, circondati da un’infinita collezione di vinili e memorabilia da far sgranare gli occhi. Siamo partiti proprio da lì.
Lorenzo: Ho cominciato a comprare i dischi negli anni Novanta, quando un amico mi regalò parte della collezione di un suo zio morto prematuramente, tra cui c’erano Siouxsie and the Banshees ma non solo. Avrò avuto 16 anni. In realtà già da piccolissimo mi avevano regalato – lo ammetto – un disco dei Bon Jovi, poi su spinta di un mio cugino metallaro a Pistoia comprai il disco omonimo degli Iron Maiden (tra l’altro prima band che ho visto live). La mia prima passione però furono i Ramones, per il mio dodicesimo compleanno mi regalò la cassetta di Loco Live: la ascoltai ininterrottamente per giorni e da allora per me sono diventati una religione, sono riuscito anche a vederli dal vivo due volte.
Quando hai cominciato a suonare e come cominciò l’esperienza dei Taxi?
L: Nel 1992, io avevo 12 anni, Tenda poco più, Danilo (Valeri, bassista, ndr) 13. Formammo i Taxi facendo qualche cover dei Ramones e molti pezzi nostri. Registrammo le prime robe nella saletta comunale di Guidonia. All’epoca vivevamo tutti a Santa Lucia, un paesino alle porte di Roma, un agglomerato di case nato intorno a una fabbrica di mattoni, senza una vera e propria identità o un suo dialetto. Quando ci abitavamo non c’era nemmeno la piazza (ora ne hanno costruita una), i miei ci si erano trasferiti da San Basilio. Ricorda ancora certi luoghi della periferia estrema della Casilina. In ogni caso, frequentavamo Roma per la musica e i negozi di dischi, ma a Santa Lucia ci formammo su Bassa Fedeltà e altre fanzine, le poche cose che ci arrivavano nell’era pre-Internet. A fine anni Novanta, grazie a Pierpaolo De Iulis della Rave Up Records, conoscemmo il giro musicale romano, che ci accolse come i bambini della situazione. Fu così che ci organizzarono i primi concerti nella Capitale.
Quale fu il primo?
L: Il primissimo fu al Brancaleone, insieme ai gruppi punk ’77 che animavano la scena romana a fine anni Novanta. La nostra base diventò il pub Bouledogue a San Lorenzo, un vero e proprio punto di ritrovo per tutta la scena underground romana, dai punkabbestia a chi ascoltava hardcore, garage, punk. Tutti lì. In quegli anni a Roma non c’era niente, oggi sembra New York per quanto è cambiata. Ai tempi era fondamentale e importantissimo il ruolo musicale dei centri sociali romani, noi fummo tra i primi a organizzare concerti nei club. Nel 2001 facemmo suonare i belgi Kids alla Locanda Atlantide: ingresso a 7.000 lire, gente da tutta Italia. Fu un successone. Agli albori di Internet trovammo un loro contatto e gli proponemmo di venire a Roma.
Tenda: Fu talmente clamoroso che una delle foto realizzate quella sera fu usata dalla band per il materiale promozionale negli anni successivi. In transenna c’eravamo noi. All’epoca, essendo più rari, i concerti erano veri e propri eventi. Ci si ritrovava tutti, a prescindere dalle “fazioni”. C’era un’atmosfera frizzante dettata dalla fame musicale. Erano tutte serate ben riuscite.
Qual è la vostra percezione della Roma di oggi rispetto ad allora?
L: A fine anni Novanta c’era fame di underground. Adesso Roma offre di più ma la gente esce meno, anche per mancanza di soldi. Ci sono realtà molto valide, da band come gli Holiday Inn alla realtà del Fanfulla, uno dei locali migliori d’Europa per quello che offre e per il modo in cui viene fatto.
Già coi Taxi avevate suonato all’estero, come Giuda suonare fuori dai nostri confini è diventato la norma per voi.
T: Sì, come Taxi facemmo due tour negli Stati Uniti, qualche data sparuta tra Belgio e UK e cinque date in Germania.
Come sono nati quindi i Giuda?
T: Alla fine dell’esperienza dei Taxi ci siamo ritrovati cresciuti come persone, alla luce di nuovi ascolti e incontri. Abbiamo formato i Giuda per tornare a suonare insieme e davanti ai nostri amici, facendo qualcosa di diverso a livello di genere musicale, un passo in avanti ma tornando indietro verso le origini dei nostri ascolti. Con il tempo abbiamo poi cercato di creare qualcosa di nostro, di originale. Non più solo revival, ma qualcosa di personale.
L: All’inizio il revival era nelle nostre intenzioni: ci siamo deliberatamente e volutamente ispirati a uno specifico genere musicale. Ovvio però che in tutte le forme d’arte è normale venire contaminati da tutto ciò che ci sta intorno. Oggi abbiamo un’identità ben definita: non c’è nessuna band che suona come noi.
T: Tutto ciò è anche dettato dalla varietà di ascolti di ciascun membro della band. Per raccontare un aneddoto in merito, una volta un giornalista del Manifesto mi chiese come mai ascoltassi e cantassi punk: mi resi conto solo dopo che mi fu chiesto solo perché sono nero e lontano dallo stereotipo di immigrato di seconda generazione che fa o ascolta rap o reggae. Mi piace la musica nera, ma come tantissime altre cose.
L: Non pensiamo di essere un gruppo rivoluzionario, ma di soddisfazioni ce ne stiamo togliendo tantissime e ho in mente ancora tanto altro. Come tanti prima di noi, abbiamo preso ciò che ci piace e abbiamo cercato di cambiare in modo personale ciò che abbiamo amato come ascoltatori. Non ci fermiamo mica, però: vogliamo ancora dire tanto a livello musicale e concettuale. Non è più solo una questione estetica come agli inizi, c’è molta più personalità anche nei testi che scriviamo.
In ogni caso si vede che siete autentici e non lo fate per posa.
L: È qualcosa che facciamo da quando eravamo dodicenni. È ciò che siamo noi, non recitiamo nessun ruolo.
T: Ed è il motivo per cui continuiamo a fare musica. Per rimanere aggrappato a un’idea che ti mette di fronte a bivi e scelte di vita e a rinunciare a una serie di opportunità lavorative e familiari, vai avanti soltanto se sai che questi sacrifici ti portano qualcosa di importante. Chi viene a vederci live riconosce la nostra autenticità e questo ci conforta perché la musica è empatia.
Come siete riusciti a conquistare un pubblico internazionale così numeroso?
L: Rispetto agli esordi è cambiato qualcosa a livello di programmazione dei tour e delle date. Nell’ultimo tour statunitense abbiamo fatto tantissimi sold-out e la gente è venuta appositamente per vedere suonare noi. Ricordo il nostro primo concerto all’estero come Giuda nel 2011, in Francia: andò sold-out, freschi del primo LP com’eravamo, e capimmo che c’erano le basi per qualcosa di più.
T: Londra è una città che ci ha accolto subito bene.
L: Londra è l’esempio calzante di come abbiamo costruito la nostra fan-base: prima abbiamo riempito una venue da 100 persone, poi da 150, oggi siamo arrivati a suonare a Camden e in location molto più capienti. È stato un crescendo ma abbiamo davvero cominciato dal basso, su palchi dove a malapena ci entravamo in 5. Poi è chiaro che per quanto tu possa gestire bene le cose e perseverare, devi necessariamente avere una base artistica valida.
T: Noi cerchiamo di mantenere un approccio coerente, anche con le realtà professionali con cui ci interfacciamo. Abbiamo detto dei “no” pesanti o interrotto rapporti a noi cari, ma cerchiamo di mantenerci integri in questo percorso di crescita.
Recentemente il The Guardian vi ha dedicato un articolo in cui esprimevano meraviglia per come siano artisti italiani a recuperare un pezzo importante della loro musicale, che spesso i britannici stessi – e anche la critica musicale nostrana -invece sottovalutano.
L: In primis siamo felici che il Guardian – e non solo – abbiano recensito con favore i nostri dischi. Per quanto riguarda l’articolo che citi, ti dico ciò che penso: i T. Rex di Marc Bolan o gli Slade o ancora i Faces riportarono il rock’n’roll sulla Terra dopo le super-band come i Beatles o gli Zeppelin, e in Gran Bretagna furono una cosa gigante. Spesso ce lo si dimentica: ai tempi gli Slade facevano più sold-out dei Black Sabbath, poi la storia ne ha ricalibrato la portata. In ogni caso, sono stati gruppi fondamentali per il rock, finché poi il punk fece tabula rasa. Agli inglesi fa strano che siamo proprio noi a ricordare loro cosa ascoltassero 30 o 40 anni fa, ma anche questa bizzarria è un nostro punto di forza. In Italia invece la cultura rock’n’roll non c’è mai stata fino in fondo, quindi spesso si è portati a leggere male certe pagine musicali, o a concentrarsi solo sul rock colto. Altrove non era così. Quando gli Sweet suonarono al Piper di Roma furono etichettati come spazzatura, all’estero invece erano in tutte le classifiche e hanno dato il La a diverse tappe successive della storia del rock. Poi qui spesso anche i giornalisti citano il junk shop glam ma non sanno cosa sia.
T: È anche una questione storica e sociale, qui negli anni Sessanta e Settanta c’era la lotta armata, mentre all’estero magari i giovani potevano concedersi il piacere di provare nei garage. È chiaro che tutto dipende dall’humus in cui certi fenomeni musicali nascono. Area, Balletto di Bronzo, Mina, Battisti sono stati giganti italiani noti in tutto il mondo. Non sempre il pubblico italiano invece è pronto ad allargare gli orizzonti, anche guardando in retrospettiva.
E spesso si concentra solo sui testi.
L: Per dire, Michelangelo era diverso da Pollock, ma non per questo l’uno è merda e l’altro no. Ciò che conta per noi, comunque, è cercare di fare il nostro con passione.
C’è anche una componente calcistica – e sportiva – nella vostra visione.
L: Abbiamo fatto due pezzi sul tema, la giocosa Get That Goal – in cui immaginiamo la band come squadra di calcio – e Number 10 dedicata a Francesco Totti, per noi il più grande calciatore di sempre.
Come vi apprestate a vivere la sua ultima stagione da calciatore (salvo prova contrario)? Io nel dubbio l’ho comprato al Fantacalcio.
L: Hai fatto bene. Più passa il tempo e più penso che abbiamo fatto bene a dedicargli un pezzo. Per noi Totti è colui che più volte ci ha fatto gioire nella nostra vita e meritava tutta l’attenzione da parte nostra.
T: Non è poi un legame a una tifoseria specifica, quanto l’ulteriore dimostrazione che parliamo di cose che ci piacciono e ci danno soddisfazione. Volevamo fare a un tributo a un personaggio importante dello sport, colui che dopo tanto tempo mi ha fatto tornare allo stadio perché ci tenevo che mio figlio lo vedesse giocare dal vivo. Abbiamo voluto portare in musica un aspetto della nostra quotidianità. Non c’è traccia di campanilismo, peraltro. Viviamo il calcio come un argomento di conversazione. Anche lo sfottò con gli amici laziali per me è la parte sana di un rapporto, dove non c’è traccia di visceralità. Number 10 è una cosa sana.
L: È un pezzo che noi abbiamo dedicato a un personaggio specifico, ma senza mai citarlo nel testo o nel video: chiunque la ascolti può dedicarla al proprio numero 10 preferito. Siamo persone intelligenti e vogliamo che ai nostri concerti vengano tifosi di tutte le squadre. Anche i laziali (risata, ndr). Tra l’altro siamo io, Tenda e Daniele (Tarea, batterista, ndr) i più appassionati della Roma, mentre Michele (Malagnini, chitarrista) simpatizza Cagliari e Danilo invece è più legato alla boxe, che ha anche praticato a livello professionistico.