A tratti ho avuto l’impressione di esserci già stata tanti erano i report preventivi, i vari “sì, ma due anni fa era meglio“, “ah, tu è la prima volta? vedrai…” e le scalette programmate al minuto, con tanto di recensioni praticamente già scritte. Da vera ingenuotta quale sono mi ero giusto scaricata la app sul telefono, che scedulava di ora in ora gli show in programma, giusto per avere una scelta più o meno consapevole. Che poi, consapevole… non è una app a renderti meno ingenua!
Comunque, alla fine, San Miguel Primavera Sound Festival, 31 maggio – 2 giugno 2012: eccovelo.
Ad onor del vero si deve partire dalla sera prima, quella del 30 maggio, data dell’evento gratuito di apertura all’Arc de Triomf. La giornata è meravigliosa, di quelle baciate da un sole spettacolare, nelle gambe non un briciolo di fretta. Ho un’amica americana con cui dividere dello spazio a sedere su un aiuola, una distesa coloratissima di umanità in continua crescita tutto intorno. Si parte alle 19:00 con Jaremy Jay, anzi, l’iphone segna le 18:59 quando il californiano e la sua band attaccano a suonare, il chè la dice lunga sulla qualità dell’organizzazione. L’intero festival si svolgerà sotto la confortante aura della puntualità. (confortante perchè quando si piomba a metà concerto sotto un palco a caso, la prima cosa che ti viene da chiederti è: “chi son questi?” e il programma stampato giorni prima è in grado di dirtelo: non sono cose ridicole, credetemi.) Dicevamo: Jeremy Jay, il pop fresco e confidenziale che ha la dote di non annoiare mai. I 40 minuti di show scorrono in un lampo, gradevoli e ammiccanti, portati dalla voce morbida e dalla sensualità del basso a reggere la freschezza quasi frivola delle tastiere.
A seguire i The Wedding Present che per l’occasione suoneranno tutto il loro Seamonsters del 1991. L’inizio, anche questo di una puntualità maniacale, appare distaccato. Ho come l’impressione che la gente ci sia perchè deve, quasi sia imprescindibile. La qualità è ottima, i bassi forse un po’ alti, ma la voce risulta perfetta. Ciononostante non mi appassiono, nemmeno quando, dopo una manciata di canzoni, le prime file iniziano a regire. Così lascio che vinca la fame e me ne vado con Ashley a cercare tapas.
Torniamo sul finire dello show dei Walkmen, di cui purtroppo non posso dire nulla. Recuperiamo degli amici fiorentini in decima fila, proprio in mezzo alla folla trepidante di attesa per i Black Lips. Sin dai primi passi mossi sul palco, ai quattro di Atlanta è chiaro che possano permettersi di fare qualsiasi cosa, tanta è la voglia di questo pubblico. E non occorre certo ripeterglielo.
Lo show è caotico e felice come una festa di liceali, la folla poga senza sosta e anche noi veniamo sballottati compiaciuti. Ci ritroviamo persino a spegnere con la birra un cappuccio incendiato da chissà quale sigaretta. Il tutto nonostante la pressochè totale inesistenza dei microfoni. Se tutti gli strumenti sono amplificati a dovere, infatti, le voci risultano incomprensibili, quasi non siano parte integrante del rock sregolato portato in scena. A poco valgono i palleggi da fenomeno con cui Cole Alexander libera il palco dalle lattine di birra o i lanci di carta igienica nel pubblico: il risultato rimane scadente. Ed è un peccato, perchè loro sul palco hanno davvero dato tanto.
Veniamo ora al festival vero e proprio, quello al Parc del Forum a partire da giovedì 31 maggio.
Il ritiro del tanto agognato PRESS PASS è costato caro a noi accreditati, che al mattino abbiamo trascorso oltre due ore in fila sotto il sole cocente in attesa di una connessione funzionante e di una manciata di informazioni plausibili. Ma sono inconvenienti che passano immediatamente nel “dimenticatoio” non appena la bistrattata addetta del press office ti cinge il polso con il prezioso braccialetto.
Arrivo con un po’ di anticipo sui miei programmi, per prendere coscienza degli spazi. Nel parcheggio vengo attirata dal felice starnazzare dei Black Lips, incaricati di suonare sul Redbull Bus questa volta. Mi fermo un attimo, il tempo di una canzone, perchè lo show iniziava alle 5 e sta volgendo al termine. Paradossalmente l’audio è molto migliore rispetto a quello della sera prima. Alexander raccomanda il pubblico di chiamare mamma e dire che stiamo bene, una cosa molto tenera, in effetti. Per mia fortuna il ricordo che conserverò dei 4 è salvo dalla bieca alzata d’ingegno dello stesso Alexander, che poco prima aveva ben pensato di mingere direttamente dal palco, a show in corso. Una di quelle cose che oltre ad essere prive di senso, finiscono inevitabilmente per compromettere qualsiasi bilancio della loro esibizione.
Passo quei cancelli immaginati da oltre un mese, finalmente, ed è tutto un rendere grazie. Penso che nei momenti così belli si debba essere grati: alla fortuna, alla nostra lungimiranza, ai sacrifici fatti per arrivarci,… a cosa decidetelo voi. Le dimensioni del posto sono sconfinate, i miei piedi sono già preoccupati e ne hanno ben donde. Mi porto a spasso curiosa oltre il merchandinsing e la zona ristoro per finire dritta sullo spettacolo più incredibile che potessi aspettarmi: il palco Ray-Ban. Lo sapevo già che fosse sul mare, ma non potevo sapere che fosse una sorta di arena. Non mi aspettavo quella luce, quella sensazione di grandiosità in arrivo. Da lì chiuderò il mio festival, tre giorni dopo, per avventura o forse perchè così doveva essere. Intanto, di qui in avanti sarà tutto stupore.
Prendo confidenza con la cartina e mi imbatto nella prima cosa squisita: i Purity Ring, sul Pitchfork. Il duo canadese fonde le evoluzioni vocali di Megan James e le ritmiche sintetiche, ottenute da Corin Roddick da un suggestivo grappolo di frutti sonori, in un prodotto godibile ma non scontato, a tratti davvero travolgente. Il disco di esordio previsto per luglio è senz’altro un prodotto che merita curiosità, non a caso questi parvenu vantano oltre 40k fan su facebook.
S’è già fatta l’ora di raggiungere quello che sarò il palco più odiato dagli avventori del festival: il MINI. Il palco è grande e l’audio è perfetto eppure è lontanissimo e costringerà tutti a fare delle scelte. In scena gli attesissimi Friends direttamente da Brookling, il carisma di Samantha Urbani in testa. I newyorkesi sono la rivelazione del momento, il loro Manifest! era un successo annunciato che non si è smentito. La bionda è infortunata ma non per questo rinuncia a dare spettacolo, calamitando a se tutta l’attenzione, in un travolgente funky carico di riverberi, che mescola percussioni e drum machine con gran naturalezza. La nota di colore sintomatica dell’appeal di Sam è data dal suo reiterare l’invito già lanciato su twitter, sino a trovare un volontario che effettivamente se la carichi in spalla, nonostante sia infortunata ad una caviglia, e se la porti a spasso per il pubbllico, mentre lei, imperterrita canta ed ondeggia. Nata per il palco.
[I Friends sono stati l’occasione per incontrarmi con i King of the Opera, amici italiani che suoneranno sabato presentando il nuovo progetto. Più tardi a spasso con Francesco incontreremo la stessa Sam e sarà bello chiacchierarci e farle qualche domanda passeggiando (piano, viste le sue stampelle, povera) verso un altro live. …ma di questo parleremo poi, STAY TUNED.]
Nel mentre il mio Primavera è tornato a parlare fiorentino e tutti insieme ci spostiamo al San Miguel per uno degli eventi annunciati di questo festival: i The Afghan Whigs. Nessuno di noi è particolarmente appasionato, ma sono eventi a cui fare una sortita, giusto per vedere la reazione dei fan, quelli veri. Neanche a dirlo, il San Miguel è il palco centrale, deputato agli show più popolari e questo è il perfetto battesimo del fuoco. La luce del giorno che volge al termine, un palco affollato di turnisti, una voce che tiene: ingredienti più che sufficienti per mandare i fan in brodo di giuggiole. Non noi, però, che siamo curiosi di vedere l’altra reunion: Mazzy Star al Ray-Ban. C’è ancora un po’ troppa luce per apprezzare a pieno le immagini da sogno proiettate dietro il palco. Una Sandoval decisamente meno eterea del passato torna sul palco come una sacerdotessa del sogno, riuscendo ad incantare di nuovo. Il risultato è, haynoi, efficace, perchè ci stiamo un po’ assopendo.
Meglio muoversi verso il Pitchfork, alla ricerca di una scarica di adrenalina: niente paura, ci sono i White Denim. C’è qualcuno che dice siano troppo bravi tecnicamente per poterli apprezzare davvero ma io non ci vedo alcun fronzolo in questa esibizione, anzi. Sono bravi, di quella bravura che si spende tutta, fino a che le mani non si muovono più dal dolore. Un set al limite della jam session, con le canzoni quasi pretesti per arrivare a togliere la polvere dagli ampli, un blues tirato tra la psichedelia, il progressive e il punk, pitturato di tinte heavy da una voce acuta che in certi picchi ricorda Robert Plant. Stiamo lì estatici a farci spettinare e quanto ci piace!
Siamo, però, giunti al momento delle grandi scelte, quelle per cui mi dannavo già da casa. Prendo la mia decisione, vista la lontananza del MINI rinuncio ai Beirut e mi concentro su quello che c’è più nelle vicinanze. Dritta al San Miguel, altro bagno di folla, per vedere da lontano i Wilco. C’è da dire che quel palco lì si presta proprio ai grandi spettacoli e anche se non sono impeccabili, i concittadini di Patti Smith offrono alla folla adorante un gran bello show, corredato da un degno impianto luci perfettamente sincronizzato.
Il problema è che al Pitchfork sta per iniziare lo show di Kindness e francamente non mi vorrei perdere quello che sembra essere il nuovo Prince. Sì, cioè, sembra… da lontano! Il Pitchfork ha dimensioni più intime ma non certo da club e lo spettacolo del londinese non sfigura, anche se non per merito della sua voce. Intanto diciamo che non è etico fare fotografie dove si somiglia terribilmente a Johnny Depp quando in realtà si è uno spilungone dinocolato tutto naso e capelli: una ci resta male, cavolo! Poi il concerto è divertente, ondeggiante e sostenuto splendidamente dalla coriste, che ci mettono voce ed ancheggi per rendere il tutto degno. Lui balla bene, non c’è dire.
Nel dubbio raggiungo i miei amici all’ATP, anch’esso raccolto come un’arena e un po’ più nascosto. Il pienone è tutto per i Thee oh sees ed è decisamente giustificato, vista la meravigliosa sregolatezza di questi visionari del garage pop. Bagno di folla, giri ritmici ipnotici e liriche sincompate rendono lo show una continua sorpresa, tra la risata e il ballo sfrenato senza eccessi ma con una tensione che resta costantemente altissima. Che meraviglia!
Non posso più rimandare: è tempo di dirigersi di nuovo al MINI, ci sono i The XX. Arrivo appena prima dell’inizio e devo farmi strada per molto, moltissimo pubblico, prima di arrivare ad intravedere il palco. Una gigantesca X a far da sfondo, una suspence palpabile: eccoli. La folla è in delirio e i britannici gongolano di tanto clamore. Il trio è splendidamente oliato, tiene altissima la tensione di un pubblico adorante e totalmente rapito. Una suggestiva nebbia ad avvolgerli, rendendoli a tratti ancor più eterei. Sarebbe stato meglio non capitare di fianco a due fan decisamente troppo esagitate, ma non si può avere tutto.
Uscire da lì richiede un impiego di energie impensabile, mi precipito al press lounge dove rincontro i King of the opera e decidiamo di accoccolarci all’Adidas, il palco adiacente al press lounge a berci una birra, chiunque ci sia sopra. Ci attira un confortante suono di sax a supportare delle ritmiche tra l’afro e l’hip hop. Troviamo Spoek Mathambo, policromo artista che incrocia ritmi sintetici, influenze ska e funky, al più classico degli hip hop. L’energia buttata sulla platea è dirompente anche se a tratti forse eccessiva.
Con le forze che sono allo stremo è tempo di battere in ritirata e domandarmi se esista un modo per tornare verso casa. Mi sono però ingenuamente dimenticata dei Franz Ferdinand, che hanno ovviamente riempito tutto lo spazio disponibile davanti al San Miguel. Non sono un’appasionata, però mi son pentita di non essere arrivata prima. Questa è la prima volta che mi domando come siano live quelli che su disco mi sembravano un po’ tutti uguali e… bè, tutt’altro che standardizzati nel punk-funk steroetipato che immaginavo, soprendono e ammaliano. Mannaggia a me! Sono appena in tempo per cogliere un tacito tributo alla grande Donna Summer: Take me out è miscelata mollemente con I feel love. Per capire fin dove portano le proprie conzoncine questi qua. Leoni.
Veniamo al secondo giorno, venerdì 1° giugno, quello in cui sono stata riprovevole, lo dico sin da ora. Il fatto è che la giornata era meravigliosa e le mie vesciche imploravano un po’ di tregua. A dirla tutta sembrava urlassero a gran voce “Barceloneta” e non me la son sentita di deluderle. Per cui approdo ai cancelli con Bruna, la mia amica brasiliana, solo intorno alle 9:00, in tempo per una birra e venire letteralmente rapite dai suoni del Ray-Ban. Sul palco ci sono gli Afrocubism, nessuna delle due ha idea di chi siano ma ci è impossibile muoversi da lì. Dodici elementi, in parte da Cuba ed in parte da Mali, una fusione di musiche cubane ed africane, la luce del giorno che non accenna a calare: è una cosa perfetta.
Il tempo di una birra e mi precipito sotto al Pitchfork, per uno degli appuntamenti che non intendevo perdermi: i War on Drugs. Il loro Slave Ambient mi sta facendo compagnia da un po’, persino a zonzo per la metropolitana di Barcellona, in questi giorni. La capacità evocativa dei loro brani, una psichedelia di springstiniana memoria (che ci crediate o no!), è resa splendidamente anche dal vivo. La voce avvolta in lievi riverberi, le tastiere affidate ad un quarto uomo, i riff di chiatarra a rendere il tutto ruvido quanto serve. I suoni sono meravigliosamente corposi, con i bassi nella pancia messi lì quasi ad agevolare la digestione. Il country rock più immaginifico che conosca.
Non passa molto ed è già ora di prendere una decisione: vedere o non vedere The Cure. Le ultime news hanno comunicato spostamenti di scaletta per aggiungere un quarto d’ora di tempo alle quasi tre ore riservate alla band inglese: non credo di farcela. Mi faccio largo tra la folla, arrivo quantomeno a vedere uno dei maxischermi. Il fatto è che son curiosa di capire com’è ridotto Smith: Sean Penn in This must be the place, per l’appunto, forse un po’ più in carne. Ho affianco un 40enne grande e grosso letteralmente in brodo di giuggiole, che canta a squarciagola qualsiasi nota proprio dentro al mio orecchio. Non sentire niente e vedere poco sono condizioni che spengono il mio già flebile entusiasmo, perciò mi sposto. Più tardi incontrerò un blogger spagnolo che da fan accanito ha messo in stand by l’intero festival per le 3 ore di show e mi rivelerà che si è trattato di uno straordinario concerto, un mix di classiconi e di ghost track che ha mandato i fan in visibilio. Ma io non sono fan, all’ATP ci saranno i Codeine e vorrei vederne qualche brano prima di migrare verso il Mini. Sull’onda di queste considerazioni non ho calcolato chi sta suonando ora e così mi ritrovo nell’orgia visionaria ed aspra dei Dirty Three senza neanche averlo preventivato: io la chiamo fortuna. Warren Ellis tutto barba e violino svetta al centro dell’arena ed è come se ci fosse solo lui. Imbastisce monologhi tra una canzone e l’altra ad una folla in estatica ammirazione. Poi imbraccia “la sua arma” e alterna solenni momenti di pizzicato ad una sanguinante intesità con l’arco: finisce per rapire chiunque passi a tiro, come un novello pifferaio magico. La psichedelia prende il sopravvento, i racconti che parlano di oceano, le teste della folla che oscillano: è un mago, ci ha tutti in pugno. Arrivano anche Bruna e Luiz, catturati da quel violino. Quando lo show finisce ci sentiamo un po’ svuotati, come svegliati di soprassalto. Ci mancherà.
Arrivano i Codeine, non più rasati ma stempiati. Stephen Immerwahr ha la pancia e gli occhiali da lettura, faccenda che mette una certa tristezza. Ma si sa, è il rischio delle reunion: non devono essere all’altezza visivamente, devono reggere il palco. Non è certo facile tornare a suonare dopo così tanto tempo, soprattutto di fronte ad una tale folla. Forse è per questo che i tre mantengono un atteggiamento impacciato e rigido, quasi fossero appena rientrati in sala prove e stiano sgranchendosi le mani. Il fatto è che il concerto si apre sornione con D e l’atmosfera in pratica si crea da sola, con dondolamento della testa che arriva senza neanche accorgercene.
Purtroppo non si può perdere tempo, che il Mini è ancora lontanissimo e tra poco ci sarà M83. Il concerto alla corte di Francia è l’occasione ideale per riconciliarmi con il palco in periferia. La piana sconfinata in cui svetta il palco è piena di gente. L’aria è quella della gran festa. Non un disordine, un pestone, una gomitata: c’è spazio per tutti. Lo spettacolo ha inizio ed è un tripudio di luci ad accompagnare uno show divertentissimo. Si balla, su canta in coro, si fa amicizia. Gonzalez, gran cerimoniere di questo sballo di gruppo, è quasi frastornato da tanta risposta. Ciò non toglie che non perde certo l’occasione per tirare la band al massimo, offrendo al pubblico un’ora di assoluta, esaltante qualità. Io e Bruna siamo estasiate, ridiamo e balliamo come delle bambine. Solo quando ci chiedono se abbiamo dell’MDMA ci rendiamo conto di quanto ci stiamo divertendo con appena una birra: questa è la meraviglia!
è la volta di tornare, più cariche che mai, al San Miguel: è tempo di The Rapture. I francesi ci hanno lasciato addosso una voglia di ballare che sembra inestinguibile, perlomeno fino a che non entrano in campo i newyorkesi capitanati da un’ometto che ricorda Peregrino Tuc della Compagnia dell’Anello, che con garbo e gran classe travolge la folla. Noi vogliamo stancarci e Jenner e colleghi ci danno il loro fondamentale contributo, senza troppe spippolate elettroniche, ricorrendo ad un confortante funk suonato nota per nota. Ora siamo seriamente stravolte. Il tempo di fare una sortita al Pitchfork, rendersi conto che il dj set di Matias Aguayo fatica a decollare ed è già ora (per fortuna) della prima metro, quella delle 5:00: anche questa seconda giornata è giunta al termine.
Sabato 2 giugno sembro il bianconiglio, tanto son di fretta, che un certo appuntamento non lo posso mancare: i King of the Opera, all’Adidas. Baciati dall’annullamento dei Melvins al vicino ATP, (il cui sound check rischiava di sporcarne l’esibizione) i toscani hanno affrontato la prova dell’esordio su un palco decisamente non semplice, superandola egregiamente. Il nuovo progetto di Samuel Katarro si è finalmente svelato, buttando sul pubblico stupito e tremendamente curioso degli addetti ai lavori i nuovi brani che andranno a comporre l’album d’esordio, previsto per il prossimo autunno. Del blues rimane l’ossatura, alcuni scampoli diluiti e sporcati da tantissima psichedelia. Wassilij Kropotkin alterna il violino alle tastiere ed è difficile non pensare alla new wave scomposta e punkeggiante di Francesco Motta (che infatti affiancherà nei Criminal Jokers). Ci sono muri di suoni e ballate soffuse in questo live, si passa dal truce al poetico spesso all’interno dello stesso brano. C’è tanta carne al fuoco ma il risultato non è pacchiano. Alberto, dalla sua, ha una voce che permette qualsiasi variazione di registro, mentre la batteria di Simone Vassallo svela una versatilità non comune. Ne esco stordita da uno stupore che non sapevo pronosticare e piuttosto orgogliosa: hey, quelli sono italiani!
Mi sposto mollemente al San Miguel e cerco di raggiungere i brasiliani sotto il palco dei Kings of Convenience. Onestamente non sento questa grande attesa, nonostante li apprezzi molto. Credo sia per il fatto che ho già visto un loro show e che di alternative ce n’è così tante. Fatto sta, mi faccio largo tra la folla cercando di raggiungere Bruna e Luiz che sono incredibilmente vicini al palco. Ci riesco quasi, giungendo però a litigare con un paio di fan accanite che dichiarano di essere lì da due ore. Inizio a chiedermi in che modo il loro spreco di due ore possa interessarmi, ma l’argomento è piuttosto inutile, quasi come l’accusarmi di essere troppo alta (Ah, tra l’altro, attenti a dire una cosa del genere, prima o poi qualcuno vi risponde che siete voi troppo bassi: potrebbe essere sgradevole). Il mio scopo è comunque quello di vedere solo un paio di brani e cercare di riconoscere i norvegesi che due anni fa incantarono la piazza di Urbino con uno show tra il sognate e l’ironico: sono decisamente loro. è affascinate il magnetismo di quei due. Se ne stanno lì, con quell’espressione tra lo stupito e il sornione, a sussurrare nei microfoni, mentre la folla ammutolisce totalmente ipnotizzata da quelle 10 dita su 12 corde. Nella loro dimensione più scarna sono ammaliatori ed innocenti come pochi altri. Peccato per i loro fan. Non ci si muove, non si può parlare, guai a superarne qualcuno!
Me la svigno dai fiorentini, che è un giorno intero che non parlo italiano. L’occasione è ottima, perchè sono al Vice a vedere i Girls Names. I britannici sono degli splendidi interpreti di quel pop post-punk e low-fi legato a doppio filo al vinile e ai ray-ban neri. La concorrenza con Atlas Sound al vicino Pitchfork rende il pubblico piuttosto rado, ma non per questo meno eclettico (tra gli altri, una ragazza in cappello, maglione e mutande di lustrini). La semiacustica e le tastiere giocano con le ritmiche, creando muri di rumore e derive noise decisamente convincenti. C’è anche l’occasione per presentare il prossimo singolo che (avevate dei dubbi?) uscirà a fine giugno in 7”. Sono così brava da filmarlo:
Bando alle ciance, è già tempo della giornaliera migrazione al Mini, la cui programmazione rende tollerabile ogni singolo esodo: è tempo di Beach House. Il palco è uno straordinario cielo stellato, Victoria ed Alex emergono appena dalla nebbia, con loro un baterista. L’attesa è vibrante, c’è una tensione palpabile e ai due si prospetta una scelta: incendiare la folla o tenerla costantemente sul filo del visibilio. Sebbene la prima sarebbe la via più semplice, il dream pop del duo si presta al distacco ed alle sofisticazioni. Se non fossero dei professionisti, il rischio di una performance fredda ed altezzosa sarebbe concreto. E invece. Le doti canore della Legrand stemperano le pochissime interazoni con il pubblico mentre i tre sono appena riconoscibili nella foschia. Un distanza quasi obbligata finisce per mettere in luce un set vibrante e avvolgente. Splendidi.
Ancora un po’ stralunata me ne torno verso il Pitchfork per vedermi i Chromatics. Se sulla carta la resa poteva essere, nella giusta proporzione, assimilabile a quella dei Beach House, in realtà la folla accorsa ne rimane un po’ delusa. Gli inserti digitali rendono il pop degli americani un prodotto dalle notevoli potenzialità ma la freddezza dei quattro finisce per disinnescarlo. Persino quando chiudono con la cover di Into the Black di Neil Young risultano scialbi e fanno (ovviamente) rimpiangere l’originale.
Rimango al Pitchfork per un po’ di R&B: in cartellone c’è The Weeknd, ovvero il prodigio Canadese esploso l’anno scorso con qualche realese digitale autoprodotta. L’attesa per Abel Tesfaye è davvero tanta e lui non la delude, portando sul palco, oltre alla sua incredibile voce e ad un carisma da artista navigato, anche una band al gran completo che rende le basi digitali qualcosa di molto più rock e diretto. Se coi Chromatics qualche dubbio è legittimo, The Weeknd non delude l’hype (che rimane altissimo: il mio umile video col telefono sfiora le 2300 visualizzazioni), organizzando uno scenario di luci piuttosto suggestivo e gestendo anche al meglio l’inconveniente del black out dopo appena mezzo brano. Insomma, Abel farà ancora ben parlare di sè e sarà tutto meritato.
Da tanto contegno il passaggio al San Miguel è piuttosto drastico, più che altro perchè è giunto il momento: Justice Live. Per quanto fossi preparata, non avevo considerato le dimensioni del palco e l’incredibile possibilità di dar sforo alla tamarraggine dei francesi. Qui il black out appena passato a The Weeknd creerebbe panico incontrollato. La consolle è una luminaria incredibile, circondata da (quanti sono?!) 18 ampli Marshall anch’essi illuminatissimi e dominata al centro da una gigantesca croce al neon. Il set è divertente, non proprio esaltante, ma ridiamo a balliamo spensierati, scacciando dalla mente il pensiero che sia vicina la fine del Primavera, ci piaccia o no.
Alla fine quel momento arriva. Prendiamo l’ultima birra (la prima che pago al bar e non al Press Lounge e così scopro che costava € 4,50, una follia, specie per la birra che tutti compriamo al supermercato perchè economica) e ci buttiamo sulle gradinate del Ray-Ban. Sarà Neon Indian a chiudere il nostro festival. L’ho saltato pochissimi giorni fa a Rimini e scopro che le mie amiche avevano ragione: Palomo balla come Lorella Cuccarini ai tempi d’oro! La cosa è piuttosto divertente. Per il resto il ragazzo e la sua band sono davvero gradevoli, l’esecuzione convincente, manca forse un po’ dell’acidità del disco ma la folla gradisce il pop freschissimo che ne esce. La tanto attesa Polish Girl è un sorprendente spettacolo di teste oscillanti, visto da lassù.
è l’apice del rito collettivo, la sua fine. Me ne esco giusto un attimo prima che il concerto finisca. La metro è stata aperta tutta la notte, non c’è da aspettare, solo da farsi largo dalla folla. Un abbraccio a Luiz, Juao ed Eduardo ed io e Bruna ce ne torniamo in ostello quasi senza parlare, con il sapore in bocca di una bella cosa di cui siamo state parte. Quest’anno la moda era dire che il Primavera non fosse all’altezza, che l’anno scorso, ah, quello sì che è stato bello! Vorrei avere dei paragoni per poter smentire tutta ‘sta spocchia con i fatti. Non li ho, ho solo l’entusiasmo della neofita. Che può darsi infici la mia capacità di giudicare, ma la verità è che ho già voglia di comperare i pass per la prossima edizione. Così, a scatola chiusa.