Andy Shauf è un tipo di poche parole. Il che lo rende simile ad un alieno: c’è qualcosa di impenetrabile nel modo in cui parla, quasi come se trattenesse un segreto che non ci svelerà mai. Ed è meglio così: ci sono anime belle che non si devono disturbare e che si esprimono solo attraverso la loro arte. Andy Shauf è uno di loro. Ti guarda con occhi da volpino, attenti e timorosi, timidi. Appartiene ad un’altra dimensione, quella dove vivono, mi piace chiamarli così, “i toccati dal divino”. Abbiamo avuto la fortuna di incontrarlo in occasione del suo mini-tour italiano. Iniziamo la conversazione parlando di Toronto, dove Andy si è trasferito da quasi un anno.
E’ molto diverso da dove ho sempre abitato, ci dice. Prima stavo in un paesino, un migliaio e poco più di anime. Poi sono andato a Regina, dove ho studiato. E ora Toronto – a cui mi devo abituare.
Che poi tu sei incredibilmente giovane, no?
Ho 29 anni.
Pazzesco. Ti devo confessare che la prima volta che ho ascoltato la tua musica è stata per me un’epifania, sai?
Uh, grazie.
Ok, arriviamo alle domande, quelle vere. La prima riguarda la parte ritmica della tua musica e soprattutto la batteria che ha il tipico suono della batterie anni ’70 con un set super-minimal. E’ pazzesco come riesci a creare dei pattern ritmici ricchissimi e articolati – ed è un qualcosa di molto simile a Chris Cohen e Weyes Blood. Ti va di dirci di più a riguardo?
Nasco come batterista: la parte ritmica è qualcosa a cui dedico tantissimo tempo. Penso sia molto importante che una canzone colpisca l’ascoltatore in tanti modi diversi, ma alla fine siamo lì, c’è la melodia che inevitabilmente sovrasta il ritmo. Credo che si sottovaluti cosa si riesca a fare con la sezione ritmica. E Chris (Cohen, ndr) la pensa nello stesso modo: anche lui è prima di tutto un batterista e tra l’altro ha pure suonato la batteria nel disco di Weyes Blood. Forse è così: le batterie degli anni ’70 suonavano meglio e avevano uno spettro ritmico che andava molto al di là delle semplici battute dritte che si ascoltano nella maggior parte dei brani. Questo è quello che cerco di fare.
A proposito di ritmo. Le tue canzoni si muovono sul confine di pop e folk ma hanno anche delle vibrazioni molto soul. E’ il risultato di qualche ascolto preciso?
Beh, a volte ascolto della musica rap. Credo che il rap e l’hip-hop siano tra le cose più interessanti ora. Sono affascinato dal punto di vista ritmico, il modo in cui vengono pronunciato e accentate le sillabe. Penso che sia un qualcosa a cui non tutti prestano attenzione. Nella mia musica cerco di creare una forte interazione tra il modo in cui suono la chitarra, il modo in cui canto e la sezione ritmica. E penso che sia un qualcosa che abbia a che fare ovviamente con la musica soul.
Vuoi farci dei nomi?
Ascolto molto Kendrick Lamar. Ma davvero, non sono un esperto di musica rap.
Volevo sapere di più riguardo l’architettura delle tue canzoni. Per me è un equilibrio incredibilmente elegante di suoni molto secchi e momenti ariosi. Sei stato tu a creare le parti di fiati e archi?
Sì, le parti di fiati sono tutte mie – ho sempre suonato il clarinetto. Per gli archi mi sono fatto aiutare dal mio amico Colin (Nealis, ndr) che è ora al basso in questo tour. C’è stato parecchio lavoro da fare.
A proposito. C’è un video splendido girato dalla CBC in cui suoni Early to the Party e ci sono entrambe le sezioni, archi e fiati. Il momento dell’interludio è qualcosa di magico: c’è il violino che introduce la parte strumentale, poi un’armonizzazione dell’altro violino, poi i fiati che si inseriscono. La canzone cresce, sembra esplodere, poi si ferma. Di colpo. Ecco: è una delle cose più belle che abbia mai sentito.
Ti volevo chiedere proprio della struttura dei pezzi. Usi parecchie pause, silenzi, respiri. C’è moltissima dinamica nella tua musica.
Quando scrivo una canzone, la registro nello stesso momento per fissare una struttura, un’intelaiatura. Poi cerco di creare una sezione ritmica, tentando di non metterci troppi strati. Voglio rimanere solo con la sezione ritmica. Solamente così riesco a capire che basta davvero poco per sviluppare un’idea, un brano così come un racconto: posso riempire alcuni spazi con il piano o la chitarra, o ancora enfatizzare certi momenti. Cerco di tenere le cose più semplici possibili in modo che si possa percepire in maniera distinta se un elemento è volutamente accentuato. Credo che nel fare musica ci sia ora una tendenza a fare tanto, troppo, con un sacco di strati armonici che sono superflui. E allora si ha davvero bisogno di quei respiri.
Non è una scelta per niente ovvia, in controtendenza. Ora la musica suona così compatta e spessa.
Esatto, è caotica. Preferisco lavorare per sottrazione.
Il tuo ultimo album si chiama The Party. Volevo farti una domanda riguardo le feste in generale. Ho sempre avuto l’impressione che l’atmosfera di una festa possa essere rovinata in qualsiasi momento, come l’entrata improvvisa di un elefante in una cristalleria. Forse hai anche tu quest’idea?
Sì. C’è questa cosa nelle feste per cui tutti sembra che si stiano molto divertendo ma è un qualcosa che può cambiare in modo molto veloce – soprattutto quando c’è l’alcool di mezzo, basta poco per oltrepassare la linea.
Ne hai mai avuto esperienza diretta?
Sì. Molti dei momenti raccontati nell’album sono ovviamente romanzati ma ci sono delle somiglianze con cose successe intorno a me. Generalmente cerco di starmene in un angolo e prendere nota. Come un osservatore.
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Andy Shauf tornerà in Italia a giugno per tre date. Fossi in voi, volerei subito da lui.