Malamocco è un viaggio introspettivo, un ripiegarsi e distendersi di un’anima che si racconta e si cela. Proprio per questo motivo non serve spendere troppe parole su Marco Giudici: già Assyrians e Any Other, Marco è un musicista che ha sperimentato diversi generi e non smette mai di reinventarsi. Il progetto Halfalib è la sua ultima creazione e, forse, quella più matura e personale. Un lavoro che comprende una miriade di colori e sfumature, ricco di sperimentazione e attento, con uno sguardo del tutto originale, a quel panorama sonoro attuale che spazia da Dirty Projectors a Frank Ocean ma non solo. In sé contiene anche suggestioni di grandi artisti del passato: Robert Wyatt e Brian Wilson in primis. Ma quel che più mi ha colpita di quest’album è che non esiste un vero termine di paragone perché non assomiglia a nulla di ciò che abbiamo ascoltato fin’ora. Cerchiamo quindi di avvicinarci ed approfondire il percorso che ha portato alla nascita di Malamocco (WWNBB collective, 24 febbraio 2017).
Marco, il tuo disco mi ha commossa, divertita, spaventata. Quali di queste sensazioni vorresti provocare a chi ascolta il tuo album e quali hai provato nella composizione di Malamocco?
Ciao Cecilia, credo sarei felice di qualunque reazione che tenda ad una positività, intesa come una spinta in senso accrescitivo, non necessariamente dai risvolti ottimistici. In generale non mi ritrovo nei modi che tendono alla negazione, anche se sento che c’è una parte di me che va in questa direzione. Come ho cercato di far emergere i miei aspetti positivi, quello che mi auguro è di condividere questa predisposizione mentale con chi l’ascolterà. Le tre che hai detto le ho provate anche io, quindi mi fa molto piacere che tu ci abbia ritrovato alcune di queste cose. Vuol dire che in qualche misura sono riuscito a comunicarle.
Ascoltare questo disco è stato come sentirti parlare di tutto quello che pensi e che senti e alla fine dell’ascolto mi è sembrato di conoscerti un pochino di più. Hai sentito la necessità di aprirti e raccontarti? Che cosa racconta di te questo disco?
Sì. È una cosa che è partita come un momento di raccoglimento intimo, di cui avevo bisogno per stare meglio con me stesso. Tendevo sempre di più a storpiare la realtà ai miei occhi, interpretandola a mio vantaggio e misura, fino a che ho capito che stavo perdendo i punti di contatto con me stesso e di conseguenza la capacità di trovarne con altre persone. In qualche modo ho reagito e ho usato la musica per cominciare ad essere più sincero con me stesso, mi sembrava il metodo più consono a me. Poi ho cominciato a sentirmi sempre più a mio agio, mi andava di condividere, quindi è lì che ho iniziato a lavorarci con più sistematicità e con l’idea che prima o poi sarebbe uscito. Penso che il punto di arrivo fosse semplicemente capire come aprirmi, cercando di ridurre al minimo l’influenza necessaria del filtro tra quello che ho in testa e la resa concreta a posteriori. Questo vale sia per un discorso umano che musicale.
Una cosa che mi piace tantissimo di questo disco è il suo valore sperimentale: da suoni di ambiente, a campioni vocali, a distorsioni e arrangiamenti che talvolta ti sollevano da terra, talvolta ti risucchiano in vortici discendenti. Quanto è importante per te sperimentare e perché hai deciso di farlo in questo disco?
Perché non farlo mi mette a disagio ed è una cosa che non cerco, viene abbastanza da sé, per questo mi ci trovo. In un certo senso c’entra con la persona che sono, anche se per alcuni aspetti mi sento ancora molto pauroso e a tratti pure un po’ conservatore. Non sono d’accordo con questi lati di me, sto cercando di migliorarmi. A livello musicale ho avuto abbastanza presto una visione d’insieme molto chiara, c’erano tanti elementi e sensazioni che ho cercato di lasciare il più fedeli possibile alla loro manifestazione originale e in questo senso mi sono fidato dell’istinto: la parte difficile è stata quella di rendere concreta quella che era la mia idea iniziale. Una cosa che mi piace molto da ascoltatore è percepire un gap minimo tra quella che è l’idea iniziale e il prodotto finito, gap che c’è per forza di cose, ma quando è ridotto al minimo credo che il risultato sia più efficace.
Al disco hanno collaborato diverse persone, non è semplice trasformare un’idea in un brano, sicuramente è anche più difficile comunicare tale idea agli altri, com’è stato comporre e assemblare tutti i diversi pezzi di questo disco?
È stato un bel percorso, estenuante per certi versi, ma ricordo più i lati positivi che quelli negativi, legati principalmente alla stanchezza e al senso di solitudine. Quella di coinvolgere altri musicisti e amici è stata una scelta che ho avuto la necessità di fare ad un certo punto del lavoro, perché mi ero perso e non sapevo più cosa stessi facendo. Se in un primo momento la scelta è stata dettata da questa necessità, piano piano è diventata valore aggiunto e parte integrante. Penso in particolare alla piega che hanno preso le cose lavorando con Adele, che mi accompagnato in tutte le mie scelte da un certo punto in poi, dandomi supporto sia da un lato psicologico che pratico, abbiamo rivisto insieme molte cose relative agli arrangiamenti, ai suoni, lavorato per sottrazione. In realtà aveva già capito cosa avessi in testa, forse meglio di me in alcuni momenti, quindi non c’è stato bisogno di spiegare nulla. Con le altre persone con cui ho collaborato in effetti c’è stato un momento di confronto, perché li conoscevo meno, ma è sempre stato tutto molto spontaneo e non c’è stata nessuna difficoltà nel far capire cosa gli stessi chiedendo. Credo che in generale se si hanno le idee davvero chiare, non sia un problema comunicarle se si ha davanti una persona che mostra rispetto per quello che stai facendo. Se si incontra la necessità di spingere per farsi capire vuol dire che qualcosa non va, c’è una chiusura da una delle due parti, o un’incompatibilità musicale o non, insomma se le cose non vanno lisce al primo tentativo non ho molta fiducia che ad un secondo o ad un terzo possano andare così bene.
Che tipo di ascolti recenti ti hanno influenzato nella composizione?
Qual è il tuo parere riguardo il panorama musicale contemporaneo?
Non saprei di preciso, quando lavoravo a questi brani ascoltavo dei dischi che avevano tutti dei tratti in comune, mi attraeva il senso di non finito, il discorso sul gap tra l’idea iniziale e ciò che poi è finito registrato, il senso di urgenza espressiva e temporale, atmosfere omogenee. Quelli che mi hanno cambiato il senso delle cose in quel periodo sono stati SMiLE dei Beach Boys, Rock Bottom di Robert Wyatt, Fetus di Battiato. Però mi entusiasmano un sacco alcune cose che stanno uscendo, penso sia un periodo particolarmente fortunato, o forse solo perché viene data rilevanza ad alcuni aspetti che sono quelli più importanti per me. Non parlo solo di estetica, sono più alcuni sguardi generali sulle cose ciò in cui mi ritrovo molto. Non so razionalizzare e argomentare più di tanto purtroppo, e mi piace che restino caratteri irrazionali quelli che mi affascinano di più. Alcuni comunque li hai già citati, Frank Ocean e Dirty Projectors sono i miei preferiti tra quelli usciti nell’ultimo anno, ho ascoltato Drunk di Thundercat di recente e mi piace molto. Poi mi piace qualcosa della nuova trap, in particolar modo Rkomi. Per quanto non abbia molta esperienza come ascoltatore in merito, mi sembra molto personale e profondo e in generale trovo che ci sia molta freschezza, determinazione, apertura mentale in quello che fanno alcuni di loro.
Halfalib si esibirà per la prima volta al SXSW Festival il 17 marzo 2017.