Take Me Apart è il disco di debutto di Kelela, pubblicato da Warp Records lo scorso 6 ottobre e prodotto da Jam City, Bok Bok, Kingdom e Arca tra gli altri. Debutto solo sulla carta perché l’artista è già conosciutissima agli appassionati di elettronica dai tempi di Enemy, pezzo incredibile prodotto da Nguzunguzu che bucava per l’attitudine new trap e i vocal di cristallo.
Di anni ne sono passati 4 da quella memorabile raccolta intitolata Cut 4 Me: all’epoca vantava ottime produzioni e il pregio di alzare lo standard nel suo genere. Ma era il 2013, e nel 2017 Kelela non suona poi così diversa, nonostante la musica (nel mondo) abbia preso nel frattempo tutt’altra direzione.
Ma andiamo con ordine.
La title track, da sola, basterebbe per sintetizzare perfettamente il percorso dell’artista: da cantautrice trendy del primo periodo che prende la Drum’n’Bass e le aggiunge uno strato di smalto glitchy a strong black woman di questo debut album, in cui si auto-determina come artista e come donna. Ma scavando più in profondità, grattando oltre la superficie, sforzandosi in tutti i modi di trovare il colpo di genio in un lavoro che dovrebbe trasudare novità, ci si rende conto di rimanere a bocca asciutta.
Kelela esplora in questo disco tutte le possibilità che la voce le offre, spingendola in profondità su tracce come Blue Light e mettendola umilmente in secondo piano in pezzi come Frontline, per lasciare spazio ai rumori urbani sapientemente costruiti per lei da Jam City. In Bluff, invece, appena sussurra, regalandoci un minuto di vibrazioni fragilissime.
LMK, uno dei pezzi che ha anticipato l’uscita dell’album, è un brano iper-moderno che lancia una promessa, per poi difficilmente mantenerla: si può fare R’n’B senza suonare come qualcosa di già sentito mille volte? Senza dover citare per forza quel Timbaland o quel Rodney Jerkins che hanno preso tre ragazze di provincia e le hanno fatto diventare le Destiny’s Child?
LMK suona come un esempio brillante di nuovo R’n’B, tradizionale nell’immaginario e contemporaneo nei suoi suoni digitali. Ma se complessivamente la traccia convince, ammalia e non sbava mai, è proprio questo non sbavare mai, questo calcolare ogni nota per suonare uguale a se stessa, questa spasmodica ricerca di uno stile indentitario che nasconde il principale difetto comune a tutto il disco: sono 14 tracce da ascoltare tutte d’un fiato, ma che si lasciano dimenticare con altrettanta velocità.
La nostra preferita su tutte è invece Onanon, col suo Doppler-effect beat e la sua ambizione pop a ricordarci che avremmo voluto più tracce così per gridare al capolavoro.
Take Me Apart è un album che complessivamente scorre via senza lasciare un’impronta memorabile. Emotivamente maturo, corporeo e sensuale – anche se non vuole strafare -, suona come un disco ancorato a un futurismo che sembra già vecchio.
Immaginate di scattare una bellissima fotografia oggi e di riguardarla tra dieci anni: avete fatto di tutto per allineare ogni elemento e creare un piacevole equilibrio generale, ma vi rendete conto a posteriori che un difetto voluto o una storpiatura ricercata l’avrebbero trasformata in un’indimenticabile icona.