Vincent
Abbiamo parlato con St. Vincent di podcast e sonniferi.
E ci ha raccontato come mai New York è una delle sue canzoni più importanti.
“Is it handmade?” È fatto a mano?
Annie Clark, per tutti St. Vincent, mi ha appena fatto un complimento alla giacca del completo. Mi piace un sacco il taglio, aggiunge.
St. Vincent mi accoglie nella suite di un hotel blasonato di Londra mentre sorseggia una tazza di tè, seduta a gambe incrociate su un bel divanetto. Indossa una tutina leopardata, un paio di scarpe basse di pelle e borchie e degli occhiali da sole rosa fluo (che non toglierà mai durante l’intervista) come fossero i capi più casual e comodi del mondo. È metà Luglio e del nuovo album MASSEDUCTION, annunciato due mesi dopo con una conferenza stampa live su Facebook e in uscita il 13 Ottobre, non si sa ancora nulla.
Siamo sedute l’una di fronte all’altra eppure tra noi c’è una distanza enorme. Dentro di me ho una polpetta di straniamento e timor reverenziale. Da parte sua – non posso dire quanto sia voluto – sento un distacco quasi chirurgico sin dai primi istanti della conversazione. Ogni tanto la distanza si scioglie nelle risate o quando troviamo dei punti di contatto. Sono proprio loro ciò che cerco – piccole tracce, aspetti comuni. Saranno quelli i miei appigli durante la conversazione. Servono a non farmi sentire perduta e ad accorciare quell’oceano tra la mia poltroncina e il suo divanetto.
Durante l’intervista faccio fatica, inciampo, sudo. E capisco in fretta: St. Vincent non è una di noi. E non lo è mai stata. Sì, potranno anche esserci delle affinità ma ci sono micromimiche, piccoli gesti e risposte che eludono un reale avvicinamento, sguardi che non si concedono. Il personaggio solo occasionalmente si interseca con la persona e questa cosa mi affascina e mi paralizza. Ma da qualche parte, mi dico, si dovrà pur iniziare.
Is it handmade?
Yeah, handmade by Zara, rispondo scoppiando a ridere, la sua risata all’unisono con la mia.
Ok, si parte.
New York è una canzone che per me funziona su molti piani; e credo sia un riflesso di come la musica sappia funzionare in modo magico: qualcosa di privato ma che è profondamente universale. Penso che New York trasmetta un sentimento avuto da molti: sentire un posto e una persona non più come la propria casa e allo stesso tempo sapere che c’è una persona in grado, a questo mondo, di tirarci su il morale o di salvarci. Dici bene, c’è un senso di spaesamento collettivo: l’anno scorso abbiamo perso così tanti personaggi che per me erano, appunto, eroi, Bowie e Prince primi nella lista.
New York è una canzone che non vedevo l’ora di condividere: ogni volta che pubblico una canzone accetto qualsiasi tipo di interpretazione perché, una volta fuori, la palla passa totalmente all’ascoltatore. La canzone si trasforma e entra nella sua vita, diventa quasi come una macchia di Rorschach. E questo, credo, sia solo una minima percentuale di come la musica sia generativa.
Era un periodo molto intenso di tour, dovevo essere sempre in forma ma mi sono resa conto di non farcela da sola. Tuttavia non mi sono mai sentita dipendente. Mi sono voluta affidare ai farmaci (lei li chiama col nomignolo ironico “mommy little helper”, ndr), soprattutto per superare un momento critico. Mi sentivo in alto mare e mi dovevo tenere attaccata a una zattera per stare a galla: è stato un periodo molto confuso e spersonalizzante, quasi dissociato. Adesso mi sono completamente sbarazzata di qualsiasi pillola e sono diventata super-noiosa. Bevo solo tè o camomille. Non riesco neanche a sopportare l’odore dell’alcool: e dire che una volta amavo il vino rosso. Di sicuro è successo qualcosa.
Ci tengo a dirlo: in Pills il narratore sono proprio io. Non voglio che la canzone suoni come una critica generalista contro l’industria farmaceutica americana. È solo una storia personale che ha ramificazioni universali. Con una lezione: conoscere quali sono i propri limiti è sempre utile. Se non si sta attenti, si rischia in un attimo di cadere.
A meno che non si passi dall’essere una YouTube sensation ad una popstar da un giorno alla notte, penso che suonare musica come professione ti porti a vivere una serie di umiliazioni a dir poco comiche. Suonare in una pizzeria senza pubblico, ad esempio. Far rimandare il tuo concerto di due ore solo perché c’è qualcuno che ha una serata di quiz a tema Friends. Dormire su divani di case occupate da punkettoni nostalgici. Tutte cose che ho vissuto, tra l’altro.
Mi ha salvato pensare che, ovunque fossi, ce la stavo facendo ed ero felice, quasi esaltata. Sentivo che iniziavo a essere dentro la cosa che avevo sempre voluto fare. E quindi sì, penso si debba scendere a patti con questo tipo di umiliazione – e credo anche che siano questi i momenti da condividere con le persone attraverso le canzoni.
Penso ci possano essere dei potenziali clienti là fuori.